Ebbene sì, è dal 13 al 18 luglio che ho partecipato ad un workshop attoriale. Non nego che, pochi giorni prima di partire per Milano, non volessi più prenderne parte …o meglio non mi sentissi adatta, non mi sentissi più all’altezza ma di cosa, di chi? Addirittura per tentare di giustificare la mia paura, finalizzante a farmi desistere dal presentarmi all’appuntamento, mi ero convinta di non avere neppure un briciolo di memoria.

La verità è che la sottoscritta è diventata presto severa ed intransigente con se stessa. Il voler essere adeguata ad ogni contesto, alle aspettative delle persone e alle mie forse in primis, mi è parso per troppi anni – invece che non dovermi mai sembrare giusto! – filtro e requisito del bene e dell’accoglienza. Soltanto dimostrandomi degna delle attese, e dei desideri e delle preferenze, altrui credevo di riuscire ad essere accettata (<<Giulia, svegliaaa. In tal maniera indiscutibilmente accettata lo sei stata, ti sei colpita con l’accetta, altroché>>) e divenire parte di un qualcosa di bello. Gli altri però non possono sapere ciò che realmente fa sorridere la mia anima, e soprattutto l’affetto e l’amore non conoscono ragioni! Ed ecco inoltre che, beffardamente, è stata con ogni probabilità proprio la mia ricerca della perfezione e il mio involvere quindi in una ragazza, giovane donna, posata (perché contenuta nell’istintualità) a rendermi invisa ed eccessiva, e dunque ad attirare un numero impressionante di antipatie.


E cosa ha di continuo fatto la mia mente? Nient’altro che tradirmi, mi ha cioè ingannata e reso schiava di assurde sovrastrutture a non lasciar respirare il mio cuore, in maniera incondizionata, senza essere capace di vivere la magia delle emozioni, dei sentimenti, che esclusivamente il non avere né regole né schemi permette. Mi ha fatto affogare in un deserto, e più lottavo per uscirne e più venivo risucchiata nelle sabbie mobili. Così, quotidianamente, ho compiuto il più imperdonabile degli stillicidi: ho prosciugato, pietrificato, l’emotività. Non è un caso infatti che io sia incapace di piangere, odi le discoteche e quello che mi pare soltanto un dibattersi sfrenato e volgare, urticante quanto lascivo, ché chissà non sia una mia pre-impostazione delimitante a darne tale lettura. Certo è che di fragilità e lasciarsi andare non sono mai stata brava a parlare e tanto meno la volevo mostrare.

Poi però da quel corridoio di un bianco abbagliante è spuntato Lui, è venuto avanti il “mio” Uomo dell’arcobaleno ed è come se il tempo e lo spazio d’improvviso avessero finalmente perso significanza. Il mio faro nella tempesta, l’epicentro del mio terremoto, ha un nome: Giuseppe Morrone, ma non crediate userò aggettivi ad ingabbiarlo, giammai, in una forma. Non definirò colui che mi ha fatto sentire per la prima volta libera e di nuovo per una seconda, non giudicata perché, proprio per quelli che i più chiamano difetti, unica. Giuseppe ha letto la mia anima oltre ogni orizzonte al di là del quale nemmeno io volevo andare, al di là di quello spartito talmente inappuntabile da riconoscere palesemente posticcio nella sua falsa impeccabilità e disarmonia invero, poiché per la maggiore monocorde, un elettrocardiogramma piatto.    

Citando Emanuele Aloia [https://youtu.be/6E9BzpFpF8k] nei suoi “occhi ho visto i girasoli di Van Gogh (…). Passano i giorni e sogno un colore per ogni stagione/ Questa tristezza è solo l’essenza/ Di arte incompiuta che chiamano amore/ Riflesso di luce come un girasole/ Eco di vita, parole lontane/ Vedo mille sfumature/ Che rendono l’attimo quasi immortale (…)”. Ed io, in quegli occhi negli occhi, ho avuto l’inestimabile fortuna di vivere, proprio per un istante immortale, l’eternità. Il più puro battito in un silenzio pieno, meravigliosa essenzialità, a non necessitare d’altro. Fotografia in coriandoli di perché che non importa più conoscano terra alcuna.

Giulia Quaranta Provenzano