Osservo fotografie a ritrarre ampi sorrisi, complici e profonde tenerezze, pieni e silenziosi atti delicati e leggeri quanto traboccanti ed intrisi di dolcissimi sentimenti. Ogni più impercettibile gesto e sfumatura del provato non passa inosservato alla mia lente d’ingrandimento – ma io questa magia non riesco mai a sentirla davvero sulla mia pelle, e non mi ci ritrovo così, invero, alcuna volta (benché, a tratti, il solo contemplarla mi dia l’impressione di condivisa e condivisibile quiete).

Leggo, guardo volentieri ciò che trovo – quel che cerco sennò sarebbe sempre il medesimo in quanto ognuno ha una propria “canzone”- e quel che vedo ed i miei pensieri si affollano senza sosta aggrovigliandosi ad interrogativi, dubbi e dilemmi che del latente hanno poco dopo anni…  C’è chi sostiene che l’arte debba raccontare del bello della vita, eppure che senso e quale il suo imo significato, frutto e semente ha il trionfo del piacevole, della gioia di fronte a tutte le situazioni di mancata e negata spensieratezza, di sereno? Sì: dovrei fissare e tratteggiare proprio l’esistenza e pur, nel rispetto per chi soffre, andare incontro ad ogni sguardo che fa bene, rende felici e regala istanti di cui ringraziare e dei quali essere propositivamente memori. Nonostante l’intento, non di meno, la mia attenzione è più spesso calamitata da ritratti forse isolati di abbracci in attesa, di lacrime taciute, di delusioni ingoiate, di fatiche da ancora sopportare – fatiche che ritrovo tanto sovente nella natura e nei tribolati, reietti, martoriati! È ogni “Questo è brutto (…)” che invece, personalmente, maggiormente mi è caro e che mi porta a fare un sonoro respiro per iniziare a ri-operare di continuo per quel che al contrario va condiviso, per restituirne coscienza e un incisivo messaggio da tenere vicino e mutare attraverso immagini sospese ed eppure delle quali acquisire consapevolezza e responsabilità. Innumerevoli cose si possono e si devono scoprire, o riscoprire, nell’eternato in uno scatto. Cambiare marcia e ritmi ascoltando, rallentando, prendendosi tempo e spazio per meditare ed esplorare è possibile. I neonati lo insegnano, invitano alla calma, alla considerazione e al riguardo dei tempi ché allorché sono loro i soggetti da fotografare non si può far altro che prestar orecchio, occhio ed aspettare la perfezione dei piccoli moti spontanei ed autentici, in secondi commoventi poiché battiti vissuti in toto. Con ogni probabilità è proprio tal incontrovertibilità e capacità di incontenibile e non arginabile meraviglia a caratterizzarli che, insieme all’universo naturale, li elegge a preferiti dal mio zoom.      


Nell’appuntare il presente quasi vaneggiare mi viene adesso in mente Vincent van Gogh, che adoro col suo mondo interiore e i suoi stati psicologici a susseguirsi improvvisi, dalle reazioni e dai toni più melanconici ed appassionati a quelli più cupi ed inquietanti, tumultuosi distintivi di un’anima incapace di trovare pace seppure dal fragile corpo anelata. Una complessità, quella dell’inimitabile pittore di Zundert, che ritrovo nei grandi Artista con la -A maiuscola. Peculiarità, questa tensione inesausta dello spirito creativo, che esprime e si esprime in nostalgia di un’altra differente eternità e tumulto senza tregua per la visione del mondo nel qui ed ora. Mondo che non v’è essere umano a non poter abbandonare, simbolo per eccellenza d’ogni amore tradito e di quanto c’è stato, non c’è stato e divenuto e poteva piuttosto esserci e diventare. Ed è l’intrattenibilità di frazioni e giorni che sento forte alla morte di scrittori, poeti, musicisti, cantanti, scultori, pittori, fotografi, attori, ballerini e dunque – in data 16 aprile 2020 – alla scomparsa di Luis Sepulveda. Dipartita, la tale, a palesare ulteriormente l’impossibilità di trattenere alcunché all’infinito fino a trasformare la vita appunto, l’amore, il bello in ricordo non troppo di rado grave e comunque visceralmente amico e al di là del transeunte come soltanto l’Arte sa – regalare. 

Giulia Quaranta Provenzano