Ma è tutto regolare o c’è qualcosa che non quadra (o non è chiaro) nella richiesta effettuata da parte di un’azienda agricola locale che vorrebbe spargere sui campi alla periferia di Tortona del “Digestato” cioè del materiale proveniente da un biodigestore locale ad uso agricolo?
E’ la domanda che viene spontanea leggendo la lunga lettera, che ci ha inviato Annamaria Agosti, dalla quale emerge che, forse, il digestato rientra nella categoria dei rifiuti.
E allora cosa facciamo? Spargiamo rifiuti sui terreni?
E’ regolare questa procedura? Rientra perfettamente nella norma? Francamente il quesito non è di poco conto.
Altra considerazione: l’impianto a quanto apre tratta il sorgo, cioè lo stesso materiale per cui si disse di no al un impianto di Bioetanolo proposto alcuni anni fa a Rivalta Scrivia.
La questione non è di poco conto e coinvolge 8 comuni della zona.
Ma terminiamo qui ogni considerazione superflua invitando a leggere l’ultima lettera in redazione dell’ ambientalista tortonese.
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Egregio Direttore,
Perché, in un ciclo teoricamente perfetto e sostenibile, il digestato proveniente dalla produzione del biogas di una azienda agricola dovrebbe essere assimilato ad un rifiuto, anziché ad un prodotto?
Può apparire una domanda singolare, ma che sorge spontanea, esaminata la tipologia di richiesta comparsa in Albo Pretorio del Comune di Tortona, da parte di una azienda agricola della zona, che domanda l’autorizzazione a spandere il digestato prodotto dal proprio impianto nei territori di ben otto Comuni limitrofi, ai sensi dell’articolo 208 D.Lgs. 152/2006.
Tale specifica normativa regola, appunto, l’autorizzazione ad effettuare lo spandimento del digestato a beneficio dell’agricoltura, ma inquadrando il digestato nella tipologia dei rifiuti.
Secondo questa fattispecie di classificazione del digestato, l’articolazione di legge è, per una volta, estremamente chiara: “se rifiuto entra, rifiuto esce”.
La normativa rifiuti è concepita infatti per far fronte alla gestione di materiali a volte molto problematici e prevede cautele, analisi, controlli che, pur essendo perfettamente pertinenti nel caso di rifiuti ordinari, sono particolarmente onerosi per un digestato originato da materiali di natura agricola che, per loro natura intrinseca, si presume non debbano comportare particolari problemi per l’ambiente.
Fa decisamente specie questa scelta di orientamento, anche perché la gestione del digestato come rifiuto potrebbe, nell’immaginario collettivo, associarsi ad una ricaduta poco positiva per l’ immagine di una azienda agricola, che, di norma, non viene identificata come un soggetto smaltitore di rifiuti. Con eventuali problemi che potrebbero, conseguentemente, insorgere nei rapporti con i vicini, nell’acquisizione di eventuali asservimenti su terreni agricoli e nella gestione amministrativa degli adempimenti.
Perché, questa scelta?
La classificazione normativa del digestato è sempre stata molto controversa ed è stata solo in parte chiarita con l’approvazione del D.Lgs. 4/2008, correttivo del D.Lgs. 152/2006. Con l’approvazione del quarto correttivo (D.Lgs. 205/2010) il Legislatore ha, quindi, mirato ad identificare chiaramente la soluzione del problema.
Come tutti i materiali, anche il digestato può acquisire, ai sensi della legislazione vigente, la seguente natura:
1 RIFIUTO (Art. 183)
2 RIFIUTO SOTTRATTO ALLA DISCIPLINA SUI RIFIUTI (Art. 185)
3 SOTTOPRODOTTO (Art. 184 bis)
4 PRODOTTO
La classificazione del digestato prodotto dal singolo impianto nella categoria “rifiuto” è imposta dalla normativa laddove classifica il materiale come rifiuto non sulla base delle sue caratteristiche tecniche o chimico-fisiche, ma sulla base dell’intenzione o dell’obbligo del detentore a disfarsi di tale materiale.
E torno a ripetermi. Perché, allora, questa scelta, di classificarlo come “rifiuto”?
Tenuto conto che la Giunta Regionale, nel febbraio 2009, aveva emanato norme specifiche, stabilendo che, se la quota di liquami concorre almeno al 50% in peso della miscela in ingresso al digestore anaerobico vi sono le condizioni per l’assimilabilità del digestato all’effluente zootecnico, ciò configurava una evidente volontà della Regione Piemonte di contenere lo sviluppo di impianti di digestione anaerobica alimentati esclusivamente con materiale vegetale o con altri prodotti, ed era volta ad incentivare, invece, la componente di utilizzo circoscritta al reimpiego delle materie di scarto nelle aziende agricole, realizzando una filiera di buona economia tramite il riuso, il riciclo ed il riutilizzo.
Gli impianti di biogas sono nati, infatti, come un’opportunità per incrementare il reddito delle imprese agricole, nell’ambito della loro attività e con l’utilizzo dei propri sottoprodotti. E’ chiaro però che, quando gli impianti di biogas sono alimentati in misura consistente con materie quali l’insilati o cereali, coltivati solo per quello scopo, allora il rischio è di trovarsi di fronte a progetti speculativi e spesso anche a realtà che con l’agricoltura c’entrano poco o nulla. Per queste ragioni, è fondamentale che gli impianti siano proporzionati alle dimensioni delle aziende agricole ed il loro funzionamento vada a integrare la produzione agricola, non a sostituirla.
La situazione dell’azienda agricola
Trattasi di un impianto biogas da 1MW, con due digestori primari, un digestore secondario ed un post-fermentatore coperto, caricato a letame bovino, insilato di sorgo, semola e patate in quantità variabile, con tempi di ritenzione di circa 60 giorni; l’impianto ha sempre funzionato ottimamente, producendo in media 991 kWh per un totale di 8.742 ore/anno.
Nell’agosto 2013 viene inserito, nel ciclo produttivo un pretrattamento elettromeccanico del substrato di alimentazione (BioCrack); il primo mese di utilizzo segna un incremento del 18% produzione di gas ed una diminuzione di materiale in ingresso di circa il 10%, trend confermato nei mesi successivi.
“L’impianto funziona senza problemi e autonomamente. Il BioCrack aumenta la resa del gas, funziona automaticamente e non richiede ulteriori interventi. Anzi, proprio i minor quantitativi di materiale in ingresso hanno ridotto il nostro dispendio di energia e di costo della materia prima”
Sono affermazioni estrapolate da una fonte ufficiale. Lo dichiara infatti sul proprio sito il fornitore di tecnologia per l’impianto biogas lì realizzato, citandolo tra proprie referenze.
Quindi, tutto va bene, funziona alla perfezione, è redditizio e la produzione di biogas è totalmente sostenibile?
Basandosi sull’ultima affermazione dell’imprenditore, potrebbe nascere qualche ragionevole dubbio.
Nella valutazione dei costi di esercizio di un siffatto impianto, i liquami sono da considerarsi a costo nullo, e si dovrebbe ricorrere in misura trascurabile all’acquisto di substrati fermentabili che, si presume, in linea teorica, dovrebbero essere quasi totalmente autoprodotti, in quanto scarti di attività agricola.
Perché è così significativa una riduzione del 10% dei costi delle materie prime? Per quanto incidono, allora, in totale, nella miscela di carico del biodigestore?
Al bioetanolo si disse “no”
Appare legittimo domandarsi se si tratta di scarti di prodotti agricoli da trasformazione, oppure di generi sottratti alla catena alimentare. Non sono passati molti anni da quando venne fatto un pesante ostruzionismo al bioetanolo di prima generazione della Mossi e Ghisolfi, perdendo trecento posti di lavoro su Tortona; autorizzare, oggi, questo procedimento che non comporta alcuna ricaduta occupazionale sul territorio, ma unicamente profitti al privato, potrebbe apparire perlomeno discutibile.
Come sia possibile produrre una energia cosiddetta pulita usando tonnellate di insilati, che per essere prodotte hanno bisogno di quantità enormi di energia fossile ( trattori, concimi, irrigazione, stoccaggio) rimane difficile, da comprendere. Preferiamo forse un’agricoltura completamente dedicata alla produzione di energia? Lo scenario di colture a sorgo estese a perdita d’occhio, per poi utilizzarle nella produzione di biogas? E’ evidente che qui si pone un problema del tipo di indirizzo che si vuole dare al nostro territorio, e gli Enti Pubblici è proprio su questo che si devono misurare e devono essere giudicati dai cittadini. Che, in questo particolare periodo dell’anno, non dimentichiamolo, sono anche elettori.
Il rischio di sversamenti nelle acque
Perchè domandare tutti quei permessi, per l’utilizzo dei terreni di ben otto Comuni limitrofi (Tortona, Carbonara Scrivia, Cerreto Grue, Costa Vescovato, Paderna, Sarezzano, Spineto Scrivia e Villaromagnano)?
Si può immaginare un’applicazione abnorme di digestato sui terreni, nel raggio di pochi km dall’impianto? Quando poi il digestato venisse sparso in superficie, senza alcuna considerazione per le condizioni del terreno, ma al solo scopo di smaltirlo il più possibile, allora appare evidente come si metterebbe a rischio l’inquinamento dell’aria e delle acque di falda, in modo massivo. Così come appare evidente che le masse di liquame, con la proliferazione delle centrali a biogas (non dimentichiamo il biodigestore da poco autorizzato alla ex piattaforma fanghi) siano destinate ad aumentate enormemente. Se poi ci si mette di mezzo un inverno piovoso come quello appena finito non sarebbe difficile immaginare con quale facilità potrebbe configurarsi un’emergenza ambientale. Pare che, di questi pericoli, preferisca non parlarne nessuno.
I rischi microbiologici
Non ultimo, stiamo parlando di un digestato che verrebbe utilizzato come “ammendante”, ma di fatto, in base alla norma citata nella convocazione della Conferenza dei Servizi, sarebbe autorizzato come “rifiuto”.
La differenza legislativa citata in premessa è sottile, ma importantissima, ed invito tutti i Comuni interessati dal procedimento ad informarsi in maniera approfondita, ed intervenire alla Conferenza dei Servizi prevista per il 7 maggio prossimo..
Del profilo microbiologico-sanitario, avevo già trattato in due mie lettere precedenti, riportando dettagliatamente le numerose perplessità sollevate al riguardo dal Prof. Gianluigi Scolari, dell’Università del Sacro Cuore di Piacenza.
Il microbiologo stigmatizza come “tra gli studi a sostegno del biogas vi è il modello svedese che, però, introduce una preventiva pastorizzazione del materiale di ingresso a 70°C per 60 min (con quale costo aggiuntivo?) per ottenere una più efficiente riduzione del carico di Clostridi nel digestato. Nei nostri impianti viene effettuata questa pratica?”.
La domanda di Scolari è puramente retorica, poiché in Italia, a differenza della Germania e dei paesi nordici non è obbligatoria la pastorizzazione del materiale di carico del biodigestore.
Lo stato attuale degli studi di laboratorio non permette, ancora, di esprimersi per certo sulla pericolosità per la salute, nello spandimento del digestato. In linea di principio, dovrebbe prevalere l’aspetto cautelativo. Ma così non è.
Dei dati epidemiologici ci sono, però, in Germania. Lassù, i non pochi casi di botulismo e di tetano da biomassa sono stati censiti dall’Università di Göttingen, così come sono stati elencati gli innumerevoli incidenti che funestano la vita delle centrali a biogas. Noi, però, viviamo nella più rassicurante e tranquillizzante ignoranza (nel senso di non-conoscenza): i media difficilmente ne parlano, e, quando raramente lo fanno, quasi sempre prospettano una realtà alquanto edulcorata.
Si parla sempre del biogas come di un affare, senza soffermarsi in modo peculiare sugli eventuali rischi. Il prof. Boehnel, dell’Università di Göttingen, in alcune diapositive presentate ad una recente conferenza, mette in evidenza una coincidenza clamorosa, che qualche pensiero lo dovrebbe far sorgere: i mille casi di botulismo registrati in Germania dove ci sono centrali a biogas.
Boehnel stima che questi casi siano molti di più: addirittura tremila.
[Fonte: http://www.ruralpini.it/file/Materiali%20didattici/Bohnel%20Biogas_Capalbio_IT_121017.pdf ]
Si è investito in biogas per ricavare energia, per abbattere i costi energetici elevati. Ma una riflessione è d’obbligo. L’attività produttiva deve solo avere come scopo il profitto e nient’altro? Alla vista del denaro bisogna restare del tutto accecati, anche quando si affrontano nuove frontiere come questa, dove le insidie dei molteplici rischi per l’ambiente dovrebbero essere evidenti?
Eppure il passato continua, strenuamente, a tentare di ricordarci che, qualcosa, potrebbe insegnarcelo.
Annamaria Agosti
10 aprile 2014