Un sopralluogo su una ferita ancora aperta: i bidoni di Carbonara Scrivia. Un’emergenza di cui non parla più nessuno ma che esiste ancora. Oggi pubblichiamo il resoconto di un sopralluogo effettuato in zona dalla nostra lettrice Annamaria Agosti insieme a Giacomo Seghesio: una lettera in redazione che illustra la grave situazione ambientale documentata anche da diverse fotografie, fra cui una emblematica, di un sasso di idrocarburi.
Nei prossimi giorni pubblicheremo un secondo intervento sulla situazione per quanto riguarda l’eventuale bonifica, se mai ci sarà.
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Sembra una normale camminata lungo il greto dello Scrivia, un sentiero come tanti, quello che percorro in una mattina di fine febbraio con l’amico Giacomo Seghesio. Sì, tutto, all’apparenza, sembra normale, in quel tratto dello Scrivia dove 28 anni fa venne portato alla luce uno dei tanti “cimiteri di fusti” disseminati lungo le sponde del torrente. Siamo in zona Cadano, a Carbonara, uno dei siti contaminati della nostra provincia, che grande clamore mediatico suscitò nel febbraio 1986, con il ritrovamento dei primi fusti, e che portarono parzialmente alla ribalta un malaffare di dimensioni tutt’ora non ben definite.
L’anagrafe dei siti contaminati classifica questo luogo come inquinato nel suolo e sottosuolo da composti inorganici, metalli ed idrocarburi.
Qui, a pochi metri, cinque o sei, lo Scrivia scorre silenzioso, da trent’anni testimone, impotente, di uno scempio ambientale che ancora oggi esiste, proprio qui, a due passi dalle nostre case, dove potrebbe insinuarsi (o forse lo ha già fatto?) attraverso la via più subdola, quella della salute.
Lo si sente nell’aria, lo respiri, si annuncia all’olfatto, lungo il sentiero, ancora prima di scorgere quella orrenda collinetta, costituita in superficie da materiale di riporto, e sotto da chissà quali veleni, con i suoi “sfiatatoi”, che scaricano nell’aria i miasmi di ignote degradazioni; ancora prima di vedere l’area dell’ex “cantiere di bonifica” quell’odore di sostanze petrolifere ti si insinua nel respiro, un mefitico sussurro di rifiuti tossici che giacciono, là sotto, ancora indisturbati, da quasi trent’anni.
Li ritrovi nei reperti, e con le tracce presenti nell’ambiente.
Ci sono ancora, sparsi qua e là i residui dei fusti, i coperchi, il fondo dei barili, e quelle strane formazioni che sembrano sassi ma non lo sono, forse si tratta di residui melmosi oramai pietrificati, facili da spezzare, con evidenze di cristallizzazione al loro interno.
La superficie porosa di quei ciottoli ci racconta di bolle gassose sfuggite alla melma in ebollizione, durante le reazioni chimiche di degradazione, lasciando quei piccoli crateri nella superficie durante la loro corsa verso la libertà nell’atmosfera.
Quell’aria mefitica l’abbiamo respirata. E’ transitata nei nostri polmoni e ne è uscita, lasciando chissà cosa all’interno del nostro organismo.
Alcune piante che sorgono attorno a quel cumulo di veleni sono state tagliate, nella ceppaia un colore nerastro, che al tatto trasmette quella percezione inequivocabile, oleosa, di composti petroliferi, ultima testimonianza di quelle sostanze anomale che hanno avvelenato gli alberi, silenziosamente, dal sottosuolo che per loro rappresentava il nutrimento e la vita.
Quella patina rossastra sui tronchi, è forse ruggine, dovuta ad elevate concentrazioni in ferro rilasciato nel terreno dai bidoni sventrati ed abbandonati? Posso solo ipotizzarlo.
Troppe le domande, troppi i silenzi. Poche, le risposte.
Eppure, qui attorno, la vita sembra proseguire come se nulla fosse. Due lepri fuggono veloci al nostro passaggio, ci sono impronte di cinghiale e di capriolo. Penne di un incauto fagiano sparse in un fosso, traccia del banchetto di una astuta volpe.
C’è anche un orto. E arnie di api. Un cartello che indica “Proprietà privata”. Chissà se i veleni ne sono intimiditi, e frenano la loro corsa nel terreno, alla vista di quell’insegna.
E’ come se quel sarcofago di veleni appena lì dietro fosse solo una fastidiosa immagine comparsa in televisione, e di cui ci si libera cambiando canale. Come una pagina voltata, di un libro che, ancora, non porta la parola “fine”.
Annamaria Agosti
3 marzo 2014