saracinescaUno Stato centrale sempre più vorace, che demanda agli Enti Locali il ruolo di “mero esattore”, atteggiamenti sfociati nella protesta simbolica del Sindaco di Sale, Pier Angelo Barco, con il Tricolore ritirato dal Palazzo Comunale. Questo tipo di Stato appare sempre più distante dalla parte più nobile e moderna della Costituzione , la parte dedicata ai rapporti economici.

“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni” , “aiuta la piccola e media proprietà”, “provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato”. Così recita la Carta Costituzionale agli artt. 35, 44 e 45.

Cosa è successo, invece, in provincia di Alessandria, alle piccole e medie aziende, nel quinquennio 2008-2013? Quale è stato l’andamento della crisi e la sua incidenza nelle chiusure di attività, sia artigiane che ditte individuali?

A seguire è riportata una esperienza diretta, la testimonianza di un commerciante che ha tentato strenuamente di combattere con la crisi; una narrazione significativa, proprio perché uguale a tante altre storie di piccole e medie mprese del territorio; il suo racconto ci tratteggia con lucidità come sia avvenuto il declino di un piccolo operatore economico. Per la privacy, ma anche per rispetto alla sua triste esperienza, la sua identità non viene divulgata.

 

Cinque anni e tutto viene vanificato

La realtà da cui inizia il racconto è quella ante crisi, in una piccola impresa a conduzione familiare, ramo qualsiasi, che lavora bene e con clientela selezionata. L’azienda ha una buona marginazione e nessun problema di liquidità. I ricavi sono costantemente investiti in azienda e/o in immobili; operano da più di 30 anni sulla piazza. Possiedono una buona esperienza e conoscenza del mercato, buona clientela e fatturato in crescita costante sino al 2000. Le prime avvisaglie arrivano nel 2003, con il fatturato che subisce una battuta d’arresto, e poi, inspiegabilmente, inverte la tendenza, imboccando una decrescita lenta, ma costante. Dal 2008 il volume d’affari comincia a scendere in maniera preoccupante, cala il fatturato e scarseggia la liquidità: si ricorre all’affidamento bancario per mandare avanti l’attività; da parte della banca non sussistono problemi su un buon cliente, quale è il nostro imprenditore. Nel contempo, l’azienda cerca di capire le cause della perdita di fatturato, per porvi rimedio. Si ipotizza l’essere diventati poco “attrattivi” sul mercato, e si dà vita ad una svendita degli stock esistenti per reinvestire sul rinnovamento del negozio e/o nella gamma dei prodotti. Con il ricavato, che è spesso il puro prezzo di acquisto o anche meno, si cerca di aggiustare il tiro. Questo periodo – il restyling – dura all’incirca 12/18 mesi. Siamo al secondo semestre del 2009.

Nei primi tempi che seguono la ristrutturazione, spesso accompagnata da nuovi debiti contratti per investimenti fissi, le vendite migliorano, ma rimangono molto al di sotto delle aspettative. Il nuovo ciclo viene accompagnato da promozioni a prezzi speciali che intaccano il margine dell’azienda. Però almeno si lavora. Intanto le scadenze cominciano a diventare pesanti da sostenere, e si aggiungono alle spese correnti che nel frattempo sono costantemente aumentate a causa della voracità della Pubblica Amministrazione. Siamo alla fine del 2010.

Sperando in una imminente e robusta crescita, si chiede un ulteriore affidamento sullo scoperto di conto. Si azzera il magazzino, monetizzandolo. In azienda aumentano le preoccupazioni e l’aria inizia a farsi pesante. L’intero 2011 trascorre tra alti e bassi. Le banche iniziano a chiudere i rubinetti del credito. Vengono messe in vendita proprietà immobiliari, che a causa delle sempre più pressanti tasse sulle proprietà, diventano un peso sempre più insostenibile, ma le offerte sono troppo basse e si tentenna ancora. L’imprenditore e la sua famiglia cominciano ad intaccare i risparmi personali pregressi, immettendo liquidità nell’impresa. Si fa ricorso agli ammortizzatori sociali per i dipendenti.

Inizi del 2012: le commesse sperate, non arrivano: non entra gente im negozio, il telefono è muto, comincia il panico. Le uniche a telefonare tutti i giorni sono le banche, per chiedere un rientro più o meno immediato di almeno il 30/40/50% dell’affidamento sino ad allora concesso: non credono più nell’azienda e nella possibilità di ripresa. La frustrazione derivante dal senso di impotenza aumenta giorno dopo giorno. Le liti familiari si susseguono, e con esse, il rinfacciarsi le scelte operate. La cassa integrazione sta per finire. Si è costetti a prendere decisioni forti: vengono, a malincuore, licenziati dei dipendenti e si riducono le spese correnti all’essenziale. I risparmi personali stanno finendo. Si decide di non pagare tasse, contributi e nei casi più gravi l’IVA per pagare regolarmente solo i fornitori, altrimenti l’attività si ferma del tutto. I dipendenti rimasti cominciano a riscuotere le retribuzioni saltuariamente.

Siamo agli inizi del 2013: si svendono gli immobili, anche di pregio, ad un prezzo ancora più basso delle prime proposte ricevute e si cerca di tamponare l’esposizione con le banche. Di ripresa, purtroppo, neanche l’ombra. I pochi dipendenti rimasti oramai non riscuotono più regolarmente da diversi mesi, qualche acconto secondo come si riesce, perché anche loro hanno famiglia. I fornitori cominciano a richiedere pagamenti in contrassegno, la fiducia è finita. Le cartelle di Equitalia arrivano a cadenza mensile. Arrivati a dicembre 2013, la ripresa non c’è stata. L’ombra spettrale del fallimento si allunga sempre più. Tutte le risorse pregresse sono terminate. Si cerca in qualsiasi modo di salvare almeno la casa dove si vive, ricorrendo a qualsiasi escamotage, ma è tutto vano: è la fine.

Game over.

Annamaria Agosti



 23 dicembre 2013

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