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Intervista di tre giovani del “Marconi” di Tortona al partigiano Angelo Rossi

Il nonno è stato partigiano…”. Tante volte l’ho sentito dire in famiglia, fin da piccolo. Era una cosa acquisita…., lo sapevo e basta.  Qualche volta, a scuola, lo avevo detto per vantarmene, ma, davvero, senza darci tanto peso.  Giovedì scorso, invece, abbiamo incontrato on line la proff.ssa Maria Grazia Milani e Lucrezia, una delle Addette Stampa della mia classe, l’ha intervistata a proposito del suo ultimo libro e di cosa significava, e significa ancora oggi, “essere partigiani”.  Mentre parlava ho pensato a mio nonno, Angelo Rossi, classe 1929, nome di battaglia “il Nero,” partigiano dal settembre 1944 ad aprile 1945 nel Distaccamento della Fraschetta e poi inserito fino a giugno dello stesso anno nell’8^ Divisione  GL 5^ BRG.  Ho ripensato a lui l’ho immaginato giovane, audace, in pericolo, eppure determinato.  Lui ce l’ha fatta, lui è qui con me.  Sono andato a casa e l’ho guardato con occhi diversi, come se scoprissi solo allora una parte di lui, e ho deciso di intervistarlo a mia volta con Lucrezia, di condividere con i miei compagni, e con voi, questa testimonianza, le parole di un uomo che ha vissuto la guerra….e che, all’epoca ragazzo di poco più vecchio di me, ha fatto una scelta importante.

Buongiorno Angelo, ci racconti, cosa la spinse a diventare partigiano?  


Non potevo tollerare le angherie dei nazi-fascisti:  mi cercavano e per questo erano  andati a casa mia e avevano maltrattato mio padre, torturandolo con con l’olio  di ricino. Io e miei amici sentivamo fortissimo il dovere di salvaguardare la nostra patria da quella gente”.

Da dove viene il nome di battaglia “Nero”?

“Mi chiamavano così per la mia pelle olivastra. Ero il partigiano più giovane, ed ero furbo come una lepre, dicevano i compagni.”.

 Le è mai capitato di perdere un compagno per mano del nemica?

“No: i tedeschi non puntavano noi ragazzini, ci consideravano piccoli e indifesi, quindi ce la cavavamo facilmente, nascondendoci sulle rive dei fiumi per non  farci vedere”       

In questa sua esperienza, c’è stato qualcosa che l’ha colpita negativamente?

“No, ho sempre saputo che non sarei andato a fare delle passeggiate, ed ero preparato a quello a cui andavo incontro”.

Ci racconti la sua prima spedizione? Quanti anni aveva allora?

“Ai tempi, avevo solo sedici anni, ma ero già ricercato. I miei compagni mi facevano sempre accompagnare da un mulo, che trainava un carro pieno di  armi, nascoste da  rottami o pezzi di vecchia mobilia: in quei momenti temevo di venir scoperto dei nazi-fascisti più di ogni altra cosa”.

C’è qualche aneddoto che ricorda o che l’ha segnata particolarmente?

“Stavo tornando a Mandrogne, quando scattò il coprifuoco delle 20:00: dopo   quell’ora i tedeschi iniziavano a perquisire la gente.  Mentre ero sul ponte del Bormida,  con una coperta sulle gambe a nascondere un Mitra, i tedeschi mi chiesero cosa ci facessi con i mobili nel carro: dissi loro che mi servivano per un  trasloco.  Quei minuti furono interminabili, il cuore mi batteva a mille:   ho davvero temuto il peggio. Qualche tempo dopo, sul ponte dello Scrivia, io   e un mio compagno vedemmo scappare due tedeschi. Sparai alla gomma del motorino di nemici, li inseguimmo e li catturammo: allora capii che anche i tedeschi avevano paura, ed era bene che ce l’avessero.   I due rimasero tre mesi nello scantinato del campanile di Mandrogne: a guerra finita, i militari italiani li uccisero.             

 Ha mai dovuto fare qualcosa contro la sua volontà?

“No, perché la mia volontà è sempre stata far del bene per la patria”.

Che significato ha assunto per lei questa esperienza?

“Non è stata un’esperienza per niente piacevole, perché ogni giorno vivevamo nel terrore, infatti mi ritengo fortunato a essere sopravvissuto, soprattutto perché ho potuto vedere il mondo cambiare”.

 Secndo lei, cosa è cambiato da quando era giovane ad adesso?

“Tutto è cambiato in fretta: il mondo è naturalmente molto diverso da come l’ho conosciuto  durante la mia giovinezza. Confesso però che, sotto certi aspetti, stavo meglio prima.”              

Grazie nonno Angelo. Tu hai scelto ed io sono qui con le mie compagne a raccontarlo proprio perché tu, ed altri come te, avete avuto il coraggio di scegliere. Sono fiero di te: non solo perché sei un eroe (e per me lo sei, grandissimo), ma perché sei e resti una persona “normale”, che ha “vissuto” la storia ed ha fatto del dovere, del rispetto e dell’amore per la libertà la sua straordinaria normalità.

A cura di Greta BRIGANTE, Luca GHEZZI e Lucrezia TETI 1^AR Amministrazione, Finanza e Marketing

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