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Un grande messaggio del Vescovo di Tortona ai cittadini contro il Covid e l’informazione


Chapeu! Il messaggio che pubblichiamo di seguito che il Vescovo di Tortona, Vittorio Viola, ha deciso di inviare alla popolazione, in occasione della Festa patronale di San Marziano, è unico.

Non tanto perché non ricordiamo molti suoi messaggi pubblici rivolti a tutti i cittadini di questa portata, ma per i forti contenuti che racchiude e perché, con la “scusa” di ricordare il Santo Patrono, in realtà, il capo della chiesa tortonese, fa un bilancio della grande devastazione che il Covid ha portato nelle persone ma, soprattutto, dentro le persone e spiega come fare per risollevarsi.


Un messaggio profondo, che abbiamo riassunto in un titolo forse non perfettamente conforme ai tanti temi affrontati da Vittorio Viola, ma riassumere in poche parole la forza spirituale e umana, che il Vescovo è in grado di trasmettere, non è facile.

Vi lasciamo alla lettura, perché merita veramente. Anche da parte di chi non crede e non ha fede.

Carissimi fratelli e sorelle,

molti pensieri mi affollano la mente e il cuore: non è facile quest’anno metterli in ordine per rivolgere alla Città un messaggio. Al posto mio, vorrei che fosse san Marziano a parlarci ancora con la bellezza sempre nuova del Vangelo che lui ha seminato in questa Città, innaffiandolo con il sangue del suo martirio.

Penso che abbiamo tutti bisogno di silenzio perché l’ascolto di noi stessi e tra di noi possa essere autentico. Da un anno siamo assediati da un continuo ed estenuante talk-show che ha la presunzione di chiamarsi servizio pubblico di informazione ma che in realtà altro effetto non ha se non quello di creare una sorta di dipendenza da una infinità di parole, spesso tra loro contraddittorie, dove dati certi, stravaganti opinioni e patetici protagonismi si aggrovigliano in un gomitolo inestricabile che ci imprigiona la mente. Effetto di tale dipendenza è un certo stato confusionale che non è esattamente la condizione ideale per poter comprendere ciò che stiamo vivendo. Nell’occuparci – spesso, purtroppo, con quella spavalderia che è tipica dell’incompetenza – di molte questioni igienico-sanitarie, legislative, socio-economiche corriamo il rischio di non chiederci quale sia il senso più profondo di questa inattesa esperienza, per poter imparare non solo a gestire un piano pandemico, ma a rivedere la nostra vita.

La cosa peggiore che ci possa capitare è di non vivere questo tempo. Ci ritroviamo a mettere in atto diversi tentativi di fuga dal presente, ora guardando solo al passato, magari cercando capri espiatori per la nostra coscienza ai quali poter dare una colpa, ora sognando un futuro nel quale poter tornare a “vivere in piena libertà” la schiavitù di quei riti con i quali ci illudiamo di riempire il vuoto che il dolore ha fatto diventare una voragine.

Per stare dentro questo tempo abbiamo bisogno di relazioni nuove, di riferimenti condivisi perché alti, di una visione che diventa progetto e di scelte che ci permettano di realizzarlo. Ecco perché dico che abbiamo la necessità di comprendere il senso: non si tratta di improvvisare risposte facili a domande difficili ma di assumere un atteggiamento interiore di ascolto.

Abbiamo imparato qualcosa dall’esperienza dell’ultimo anno? Non ho la pretesa di avere la risposta: pongo la domanda per cercarla con voi.

La frammentazione dei rapporti sociali era già in corso prima dell’epidemia: telelavoro, videoconferenze, insegnamento a distanza – pur essendo modalità utili per affrontare l’emergenza – non hanno fatto altro che accelerare una disgregazione sociale in atto; un ulteriore allentamento delle nostre relazioni.

Finiremo per abituarci a una città dai volti nascosti e dai contatti virtuali? Mi viene da pensare che in realtà già eravamo, in qualche misura, abituati a non vedere il volto dell’altro e a non entrare in relazione: mascherine e contatti virtuali hanno reso plasticamente ciò che già si viveva e forse potrebbero aiutarci a prenderne consapevolezza.

L’inganno è in radice e sta nell’aver pensato la società come un insieme di individui. Nessun tentativo di costruire una comunità compattando i singoli raggiungerà mai l’obiettivo sperato. Al contrario, non potrà far altro che amplificare l’individualismo sul quale questa visione si fonda.

Abbiamo atomizzato il corpo sociale delle nostre città. Non abbiamo fatto – nonostante le dichiarazioni acchiappa-voti di ogni campagna elettorale – serie politiche familiari. Ci siamo, invece, impegnati – e qui con successo – ad erodere le basi della solidarietà familiare. Abbiamo perso il valore sociale della festa, elemento caratterizzante il tempo dell’uomo, per sostituirlo con quello commerciale del giorno di riposo.

Non possiamo sorprenderci se, così facendo, abbiamo ridotto le nostre città a una funzionale convivenza di individui. E questo non per colpa del virus o delle norme igienico-sanitarie, che vanno rispettate. Non temo la quarantena sanitaria, temo la quarantena della mente e del cuore che frantuma le relazioni e normalizza la mercificazione dei rapporti sociali.

Dobbiamo ripartire dalla persona e dalle sue relazioni naturali fondamentali, delle quali la famiglia è la sintesi più completa: solo così sarà possibile ricostruire la città. Forse potrà sembrarvi eccessivo parlare di “ricostruzione”, come in un dopoguerra. Intendiamoci: so bene che Tortona, in ogni sua componente, ha risposto con la generosità di molti alle difficoltà di questi mesi. Come sempre accade, l’emergenza fa venire a galla risorse insospettate e mostra – non senza sorprese, anche di segno opposto – la verità di ciò che ognuno di noi è. Tuttavia, non possiamo accontentarci e non dobbiamo illuderci: se il bene che vogliamo perseguire è quello comune, non bastano espressioni, pur lodevoli, di momentanea solidarietà; occorre predisporre strutture sociali che garantiscano il benessere e lo sviluppo integrale della persona.

Scriveva Jaques Maritain nel 1942: «L’ideale supremo cui deve tendere l’opera politica e sociale dell’umanità è l’inaugurazione di una città fraterna, la quale non comporta la speranza che tutti gli uomini saranno un giorno perfetti sulla terra e si ameranno fraternamente, ma la speranza che lo stato esistenziale della vita umana e le strutture della civiltà si avvicineranno sempre più alla perfezione, la cui misura è la giustizia e l’amicizia» (Che cosa è l’uomo? Discorso per la città fraterna, in Vita e Pensiero 55/1973/1, p. XXVIII).

Non è una visione utopica, ma un piano di azione politica che vuole creare strutture di giustizia sociale e di relazioni fraterne. È qui che il Vangelo che il vescovo Marziano ci ha annunciato continua ad avere qualcosa da dire e da fare, a partire da ciascuno di noi.

La città fraterna presuppone il primato dello “spirituale”, vale a dire di quella dimensione connaturale all’uomo che la modernità ha preteso di eliminare, riducendo l’uomo ad un oggetto, svuotandolo della propria interiorità e, di conseguenza, costringendo l’io ad aggrapparsi all’immediato e all’effimero, appiglio che, in questi mesi di bufera, si è rivelato non così solido per la nostra vita. Privato della sua dimensione interiore l’uomo si ritrova estraniato da se stesso, dagli altri, da Dio e condannato ad un isolamento che genera paura.

Il primato dello spirituale è garanzia del primato della dignità umana, fondamento di una visione personalista e comunitaria della democrazia. Dobbiamo riscoprire questa dimensione dell’uomo “prima che – come ci ricorda Papa Francesco – le nuove forme di potere derivate dal paradigma tecno-economico finiscano per distruggere non solo la politica ma anche la libertà e la giustizia” (Laudato si’, n. 53).

Per muoverci in questa direzione ci viene in aiuto un altro prezioso insegnamento del magistero: il concetto di ecologia integrale, nuovo orizzonte dell’umanesimo cristiano, che illumina anche la nozione di bene comune. Leggiamo nella Laudato si’ (n. 158): «Nelle condizioni attuali della società mondiale, dove si riscontrano tante inequità e sono sempre più numerose le persone che vengono scartate, private dei diritti umani fondamentali, il principio del bene comune si trasforma immediatamente, come logica e ineludibile conseguenza, in un appello alla solidarietà e in una opzione preferenziale per i più poveri. Questa opzione richiede di trarre le conseguenze della destinazione comune dei beni della terra, ma […] esige di contemplare prima di tutto l’immensa dignità del povero alla luce delle più profonde convinzioni di fede. Basta osservare la realtà per comprendere che oggi questa opzione è un’esigenza etica fondamentale per l’effettiva realizzazione del bene comune».

È ciò su cui tutti siamo chiamati ad impegnarci per fare di Tortona una città fraterna. A partire dalla tutela della famiglia e dal rispetto per la sua “missione educativa primaria e imprescindibile” (Fratelli tutti, n. 114). Sempre Papa Francesco ci suggerisce due strumenti per realizzare questo tipo di società: la benevolenza (cfr. Gal 5,22) ossia il volere concretamente il bene dell’altro (cfr. Fratelli tutti, n. 112), e la solidarietà che ha cura delle fragilità e si esprime nel servizio alle persone e non alle ideologie, lottando contro povertà e disuguaglianze (cfr. Fratelli tutti, n. 115). È una fraternità da promuovere non solo a parole, ma nei fatti. Come comunità cristiana è il modo più vero per onorare il nostro Patrono.

Auguro alla nostra Città un tempo di dialogo sincero e attento agli ultimi. Insieme: Amministrazione, Istituzioni, Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, Partiti, Associazioni, Imprese, singoli cittadini e comunità cristiana.

Nel martirio di san Marziano risplende la bellezza di una vita donata a Dio e ai fratelli. Il Signore, per sua intercessione, benedica l’impegno di tutti.

Tortona, dal Palazzo Vescovile, 6 marzo 2021

Solennità di San Marziano.

+Vittorio

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