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Riflessioni di una giovane donna sul senso del credere e sulla fede nell’invisibile

Penso che sia un’enorme fortuna, anzi inestimabile, quella di chi crede in un oltre ultraterreno e nella bontà divina. La fede in un al di là, per esperienza diretta sconosciuto ad umano e dunque per antonomasia non testimoniabile da alcuno! La reputo un prezioso grande privilegio perché neutralizza qualsiasi dolore e una larga fetta di sofferenza.

La fiducia e la convinzione che non necessita di conferme né di esperienza fatta in prima persona, eppure è ferrea ed incrollabile, nella disponibilità di una porta sempre aperta che permetta di non sapere cosa significhi la parola fine annienta ogni delusione, amarezza, tristezza. È come possedere per sé un cilindro senza fondo dal quale, se una volta il gioco di magia riesce male e non fuoriesce quanto sperato, non importa in quanto si ripresenteranno di continuo altre inesauste possibilità. La frustrazione e l’infelicità per la perdita di occasioni e delle persone amate cessano di avere significanza poiché, per coloro che sono convinti dell’eternità dello spirito, c’è tantissimo in più rispetto al visibile, al noto, all’immaginabile che si connota dunque per essere inesauribile e pertanto a disposizione senza scadenza alcuna.


Per me, invece, non è così e questa è la mia condanna nonché tribolazione nel sentire ogni dì maggiormente una spada conficcata nel costato a far sanguinare terrene lacrime, abortite. Giorni che si consumano senza sosta ed insieme logorano la speranza, ad esaurimento, in una clessidra inclemente e che non conosce pietà. Vorrei saper accogliere con intima convinzione, appunto per atto di fede, eppure tale non è.  

La sottoscritta ossia non riconosce consolazione fattibile giacché nessuna ignota acqua sotterranea riuscirà a lenire il pianto rovente per quello che non sarà mai reale al di sotto della superficie giacché, per me, ciò che non si attualizza e permane piuttosto in potenza è destinato ad un termine, non superabile, prima o poi. Nell’esplorazione dell’io e di ciò che circonda e sovrasta non v’è strumento diagnostico, a mio avviso, se non il sensibile e per quanto la ragione possa porvi delle redini a timone di continuo non potrà che attorcigliarsi su se stessa alla ricerca di un ordine ed un altrove su cui è soltanto l’immaginazione a poter sorvolare a volo d’uccello – illudendosi troppo spesso persino di librarsi nel Sommo Bene.   

È triste e duro ammetterlo, ciò nonostante, per chi qui scrivere la vita si riduce tommasianamente al constatabile (e pur permane, qual costante altresì nell’esperito, l’interrogativo dell’inganno dei sensi e della razionalità), a quello che di volta in volta arriva e vedo racchiuso nel recinto di un’esistenza effimera che del transeunte si fa cornice e mi porta a lottare benché, fermandomi a riflette meglio, non passi alla mia attenzione inosservato come ogni sforzo è vano laddove non c’è futuro eccetto il presente.

Non nego certo tuttavia adesso, comunque, di essere una persona ambiziosa quanto folle nella mia testardaggine a non voler accettare impossibile, non di meno so che è solo il cuore a non tenere a mente i limiti dell’umano ovvero del fango di Pallada di Alessandria che tutti – consapevoli o meno – ci portiamo dietro come imprescindibile zavorra.

Giulia Quaranta Provenzano

 

      

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