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Lo smart working e la proroga dello stato d’emergenza. Pro e contro

Non terminerà con il 15 ottobre lo stato d’emergenza da Coronavirus, protratto invece fino al 31 gennaio 2021. Ed è così che lo smart working continuerà ad essere la nuova, ormai trasformatasi in largamente abituale, modalità di lavoro per circa 8 milioni di italiani.

Sebbene alcune aziende avessero richiamato in ufficio i dipendenti, anche con forme parziali e flessibili di rientro, altre hanno continuato invece nello studio di soluzioni per garantire una ripartenza in sicurezza; riavvio, tuttavia, che ora sembra sfumare sempre più – almeno ancora per alcuni mesi. Come detto appena sopra infatti, il lavoro in remoto è stato prorogato sino a fine gennaio ma ciò, se da una parte è un’opportunità, dall’altra ha già fatto emergere un inedito malessere: il technostress dovuto alla fatica di staccare la spina, e una forte alienazione.  


Nonostante questa diffusa forma di stress – secondo una ricerca condotta dalla società di consulenza specializzata in innovazione organizzativa denominata Variazioni – su 15000 dipendenti del settore privato [metalmeccanico, legale, finanziario, editoriale], quasi 9 intervistati su 10 vorrebbero continuare a svolgere la professione da casa. E circa 8 manager su 10 consigliano il passaggio dalla scrivania dell’open space ai tavoli da cucina. Numeri significativi, codesti, che paiono non rilevare alcuna insofferenza nei confronti dell’home work coatto e neppure dell’assuefazione alla routine di riunioni via web tra colleghi spesso distratti dal sottofondo domestico e in ansia nel dover dimostrare la propria invariata produttività. Soltanto il 4% ha dichiarato di aver sofferto l’isolamento, il 13% di aver sentito la mancanza dell’ufficio, il 50% è stato in grado di gestire bene la sovrapposizione con la vita privata. Il 20% ha lavorato più di quanto avrebbe dovuto, il 6% si è sentito nervoso, solo l’1% abbandonato. Per il 75% la qualità della vita extraprofessionale non è peggiorata, per il 69% dei manager il team ha raggiunto gli obiettivi assegnati, e l’86% vorrebbe proseguire l’esperienza di smart working.

È la ceo di Variazioni, Arianna Visentini, a spiegare che i dati sopra riportati hanno ragione d’essere nel fatto che il lavoro agile non è una soluzione che di per sé garantisce il benessere o il suo contrario alle persone, e neppure redditività o meno all’azienda poiché (come molti altri strumenti) è la modalità con cui lo si mette in atto a fare la differenza. Solo se lo smart working è male applicato, cioè, sembrerebbe provocare disorientamento e malessere oltre alla difficoltà nel trovare un senso al compito che si sta svolgendo, e pure agitazione nell’essere tenuti a dare evidenza di quanto e come si è riusciti oppure no a produrre. 

Certo è, comunque, che riprodurre a casa lo stesso modello organizzativo dell’ufficio aumenta il rischio di “stress lavoro correlato”. L’assenza di vincoli di orari e di luoghi, ipoteticamente, dovrebbe conciliare i tempi di vita personale e professionale favorendo la produttività eppure, quando si tenta di replicare fra le mura della propria abitazione l’organizzazione che si aveva fuori da essa, il risultato è l’esposizione ad una forma di disagio in cui il dipendente con grande difficoltà (anzi quasi mai) invero riesce a rispondere alle attese aziendali.

A seguire alcuni dati Istat degni di nota: prima del Covid-19 solo l’1,2% del personale era impiegato in smart working, tra marzo e aprile l’8,8% e nelle grandi imprese è arrivato addirittura al 33%. Sebbene il telelavoro ha permesso il distanziamento sociale e il risparmio dei costi, ha ridotto l’impatto ambientale e aiutato la conciliazione, gli effetti collaterali si sono fatti sentire sul lungo periodo giacché hanno generato una relazione disfunzionale con la tecnologia. Tramite qualsiasi device, ossia, è adesso possibile restare connessi in modo continuativo con chi che sia e pertanto, in tale maniera, rischia di crearsi un circolo vizioso in cui il lavoratore in primis rimane imprigionato in un contesto virtuale – dove è necessario essere di continuo vigili e connessi. Ne diviene diretta conseguenza il disagio da “notification”, l’apprensione derivante dall’attesa di ricevere e dall’affanno nell’inviare messaggi e soprattutto si acutizza il “phubbing”, l’incapacità di prestare attenzione al mondo e alle persone attorno a sé durante le situazioni sociali.

Infine secondo un’indagine Aidp, l’Associazione italiana dei direttori del personale, la formula di rientro mista con 2-3 giorni in presenza sarà la più probabile nei prossimi mesi. Una modalità che per il 58% degli intervistati proseguirà altresì nel nuovo anno. Si uscirà dunque dall’emergenza con una dinamica di lavoro elastica per tutti, e si riuscirà a mettere a reddito il patrimonio di competenze e pseudo-libertà acquisite?

Giulia Quaranta Provenzano

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