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Cinque storie di Covid a Tortona: la paura dell’infermiera Paola che pensava di aver preso il virus

Terza delle cinque storie scritte da altrettante operatrici sanitarie di Tortona.

Quella che proponiamo Oggi si intitola “Paola” e narra la paura di predere il virsu.


PAOLA

Smonto dal turno del mattino il 3 marzo 2020, un turno normale, tranquillo, ma alla sera arriva una telefonata della coordinatrice che mi dice che l’ospedale è chiuso, blindato c’è una epidemia è un virus, il Covid 19.

“Sei in quarantena fino a nuovo ordine” mi dice e la sua voce mi fa capire che la situazione è grave.

I miei colleghi sono rimasti chiusi dentro l’ospedale, non possono uscire, e ci rimarranno per giorni; in quei giorni piango, penso a loro, mi sento in colpa per non essere li anch’io.

Dopo qualche giorno ho la tosse e mal di gola e allora subentra in me un pensiero fisso: e se mi fossi contagiata!?

D’altra parte ho avuto contatti con pazienti che sono risultati positivi al Covid, dopo 20 giorni arrivano a casa mia due infermieri per eseguire il tampone, sono tutti bardati: tuta, mascherina, visiera e guanti, si vedono solo gli occhi e riconosco una collega.

Finalmente arriva l’esito del tampone, è negativo, posso rientrare al lavoro.

Ho paura, non so cosa mi aspetta, entrerò in qualche modo in contatto con quel mostro invisibile, sarò in grado di affrontare questa prova?

Entro in turno, sono 12 ore consecutive con tutti quegli aggeggi addosso, fa caldo, troppo caldo, non respiro, la mascherina mi soffoca,  mi gira la testa. Entro nelle camere, i pazienti sono solo nei loro letti, avvicinati e toccati da sconosciuti, perché noi siamo tutti vestiti con tute, maschere e visiere; sono spaventati , lontani dai loro affetti, qualcuno torna a casa e qualcuno non ce la fa.

E chi non ce la fa non può avere un funerale, non può indossare il vestito più bello, no, se ne va così, nudo, chiuso in un sacco, senza dignità, senza essere accompagnato dai suoi cari, l’ultimo saluto, l’ultimo sorriso glielo abbiamo dato noi sanitari.

Finisco il turno e salgo in macchina, ho un po’ di strada per arrivare a casa e allora piango, ho un peso enorme nel  petto, una tristezza infinita e penso a questi poveri cuori, aggrediti dal mostro invisibile e prego Dio che tutto questo possa finire al più presto.

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