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Nel cielo stellato del Golfo Dianese la rabbia di restare a casa diventa incanto nelle parole di Giulia

Faccio sempre fatica ad addormentarmi, ma in fondo quasi mi dispiace prender sonno perché mi sembra di gettare via il tempo, dilapidare e sprecare quanto così prezioso. Chiudo gli occhi ora però, per un momento, e penso alle miriadi di cose che ho taciuto negli anni aumentando distanze che di continuo, ogni sera, filtrano dal cuore riverberando sul soffitto: avrei, potuto; potrei, ancora, eppure non agisco mai nella maniera più opportuna perché – al di là di tutto il mio tanto riflettere – rimango una testarda, sì, parimenti un’inguaribile impulsiva. Non mi manca la cognizione e il saper valutare quel che sarebbe più furbo fare o non fare, dire o tacere, ciò non di meno prendo le situazioni di petto e intanto, poi, celo e camuffo tuttavia i sentimenti più imi poiché l’intimo, il viscerale, il profondo che maggiormente mi connota, tal, non lo voglio scoprire …che buffo, essere un baro delle emozioni, per istinto predominante ed è davvero possibile ciò?

Osservo spesso la luna e viaggio e parlo con ferite che non mi lasciano sola al mondo, una promessa espressa in silenzio alla giovane donna che non volevo diventare e pur adesso sono. Sarebbe stato incredibilmente straordinario, e oggi salvifico almeno per l’anima, sapermi e poter mostrare d’essere una viandante con la chitarra in mano a raccontare segreti uguali ad aquiloni sebbene forse per gli altri d-istanti, lillà nel cemento e testimonianze da portare magari coi pazzi. Non accordi dissonanti, passi e strette in abbracci pur per troppo mancati che s’amano e coprono ed infine mal nascondono segreti nel disegnare ciglia e mani, medesime e differenti strade a baciarsi soltanto in tattoo.


Ci sono occhi verdi che mi hanno trapassato, ci sono labbra che neppure mi hanno sfiorato e comunque in perpetuo sento vischio addosso ai pensieri. Sono pupille di fuoco, od anzi invece compatte onde d’una valle sconosciuta che profuma d’incenso e limone. È severo invero lo sguardo, dolce sol talvolta e a fissare chissà chi, chissà cosa. E qualcuno, esso, l’ha piuttosto rapito? – mi domando. Quelle piccole rughe, memoria del passato, ad incorniciare il volto squadrato. Il passo è deciso, le dita ferme e sicure, i capelli al vento. Una tensione la mia che di passione ed ardore muto, silente trema. Darei il sangue per saperlo abbandonato e in preda all’incontenibile esperire senza freni né filtri, non alcuna diga od argine nel trafiggermi altresì, basta che sia folle quanto è in suo potere e di più incondizionato. Può, non vuole? Credo desideri dominare dal momento che per lui è inaccettabile essere dominato – e in un certo qual modo è lo stesso per me… benché questi riesca a timonare l’intervallo fra i secondi e renderli e restituirli a sé, al prossimo dunque intensi, mentre io mi ci smarrisco negando di stenderli al sole.   

Qualche volta gli scrivo, per la verità sovente, e riempio le pagine della notte con speranze a ricamare persino le stelle. È inedito il mio osare e un po’ mi fa paura. Non comprendo, non so come gestire ciò che mi sfugge e le note al di là dei palazzi. V’è un plettro per curare sogni, una mandorla può darsi vuota alla finestra del presente od una rosa tra la sabbia del deserto se è il suo bene quello che perdo, quello che si sarà, verrà, perso.  

Giulia Quaranta Provenzano

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