Questo è un libro anomalo. E chi l’ha fatto arrivare manda i suoi avvertimenti. Prezzo altissimo. Copertina al contrario. Il retro davanti, il davanti sul retro. Sono avvertimenti. Siete sicuri di voler entrare? Sicuri di voler essere scossi fino al più tetro presagio di presa in giro? Fino a che non vi si incrosterà sul volto un sorriso sghembo con la bocca un po’ troppo aperta?
Antonio Moresco ci trascina, negli Increati, all’interno di un’antiutopia nella quale non vorremmo finire mai. Grattacieli spaccati. Strade percorse da crepe infinite. Automobili scassate. Morti che urlano di strazio. In marcia. Camminando. E poi di corsa. Sono tutti di corsa. La Suora Nera. Lazzaro. Il resurettore. Il Gatto. La Pesca. Corrono e parlano. S’incontrano correndo. Corrono a perdifiato circondati da grattacieli a pezzi, strade sbrecciate, cieli ulcerosi. Un mondo buio, scardinato. E poi i terremoti. Sconquassi che si accaniscono su una carcassa maciullata, un rottame di mondo inguardabile.
Lo stesso linguaggio è un pezzo di lamiera divelto che viene calato sulle cose per fratturarle ancora di più. Il linguaggio, nella grande opera moreschiana, non si limita a giudicare, ma punisce quanto più possibile. Ogni nominazione è un macigno che si abbatte sulla cosa nominata schiacciandola e scassandola. Nell’epicentro di ogni terremoto, tuttavia, fulgido riluce un residuo scintillante. Tra vortici oscuri non sarà difficile per il lettore riconoscere questa improvvisa emorragia radiosa.

Cosa possiamo dire di questo quid policefalo e pluritentacolare? Non esiste modo adeguato di parlarne. Aprire le pagine di questo cosa significa lasciarsi inghiottire in una frastornante dimensione d’ineffabile. Non si può dire l’indicibile; ma, questo appare evidente perdendosi tra le pagine dell’opera di Antonio Moresco, non si può nemmeno ridire ciò che tenta di dire l’indicibile. Ci si accorge presto che il discorso che tenta di esprimere l’inaudito è parola non spendibile. Non barattabile. Quindi per ciò stesso irrinunciabile. La visione che Moresco ci consegna non possiamo far altro che custodirla. Pressoché impossibile è cercare di offrirla al prossimo. Come uno scrigno che irradi violenti bagliori aurei, ma che una volta aperto appaia pressoché vuoto. Parlare di un romanzo come Gli Increati significa giocarsi la reputazione. Si rischia solo di capitombolare producendo uno schianto fragoroso. Tuttavia, è giusto, con coraggio, parecchio coraggio, provare a condividere ugualmente.
Quando veniamo risucchiati in modo così soffocante dentro un universo tanto allergenico la prima cosa che la ragione cerca di fare è trovare un appiglio. Cerchiamo qualcosa di familiare e scaviamo, scaviamo questa scaglia di specchio alla ricerca di un brandello di perché. E col perché cerchiamo di rappezzare il vortice di terribilità che ci viene aperto sotto i piedi. Perché consegnarci una visione così dura e disperata? Perché farci leggere proprio questo? E’ con noi, l’opera, che se la sta prendendo? Vuole punirci? O vuole aiutarci? Annaspiamo per più e più pagine. Ernesto Che Guevara. Mohammad Reza Palhavi. Mariam di Magdala. Lenin. Santa Lucia. Kennedy. Anna Maria Cecilia Sophia Kalogeropoulou. Eviscerati. Immortali. Evidenziati. Addormentati. Insorti. Franiamo in un turbine dove la parola non è più veicolo di senso, simulacro, evento fonetico, rappresentazione. Diventa sassata. Diventa sputo. Quella di questo cosa è una parola sputata. Gli increati va letto immaginando uno sputazzamento pressoché ininterrotto. Il narratore ci parla sputacchiando. Non parla delle cose; ma parla alle cose, sbattendo loro addosso fiato, saliva, bile collerica e malinconica.
Solo che le parole sono organismi vociferanti. Sembra quasi una tautologia, ma non esiste nulla più verboso dei segni che osserviamo distesi su un foglio di carta. Ogni lemma, se fosse dotato di parola, forse non smetterebbe mai di parlare, mai. Per questo è impossibile orchestrare questo concerto di voci inesauste. Da questo coro discorde captiamo quello che riusciamo. E captiamo anche quello che vogliamo. E’ questo, forse, quando leggiamo, a offrirci un’ancora di salvezza.
Lo è viepiù in un’opera come quella di Antonio Moresco. Il verbo sputacchiato degli Increati prende fortunatamente la parola mettendosi a bisbigliare e vociferare e ci rendiamo presto conto che non può essere solo oggetto contundente, sputacchio, punizione, coltellata. Ci sono le gemme, nei punti di spaccatura più fondi; e poi ci sono le scaglie di specchio, e i brandelli di perché.
Dicevamo, difficile condividere. Difficile indicare una pagina e commentare. Aprire una pagina degli Increati, anche solo un paragrafo, significa aprire tutto quanto il libro. Mostrare una parte significa mostrare tutto. Così tanto questo organismo polimorfo è ripiegato su se stesso e auto-saldato. Reiterante allo spasimo. Geremiade esorcizzante. Rosario eretico. La nenia ripetitiva sfonda immediatamente ogni evento, personaggio. Ecco che appare Aldo Moro, o Sempio, o Bindra, ma gli eventi vengono bucati in fretta dall’ondata di sputacchi ossessivamente replicati. Un’inondazione di parole e frasi che diventano canto magico, incantatorio, esorcismo. “Tracimazione”. “Incernierato”. “Vita nella morte che viene prima e che viene dopo”. “Vita dentro la morte o morte dentro la vita”. “Tracimazione dentro la morte che viene prima o dentro la morte che viene dopo”. Espressioni che ingolfano e distorcono senza sosta ogni possibile sintonia. Le lunghezze d’onda si dilatano e restringono, si alterano, le frequenze subito impazziscono.
Ormai il Moresco agens non è più in grado di tenere a bada la voce mostruosa che lo abita. Non riesce più a venire a patti. Il lettore non c’è più. Solo così è possibile dire la verità. Sputacchiando. Masticando. Deragliando. Il treno della comunicazione collassa. Fischi di freni. I bagagli cascano. I finestrini esplodono. Il treno, fuori dalle rotaie, si contorce in stridii lancinanti. Ogni paragrafo. Ogni periodo. Ogni frase. C’è questa scarica distorcente. Questo conato alfabetico. Se si tiene conto di questo, se questo it di 1023 pagine si vede così, è persino possibile cercare di orientarsi all’interno del suo idioletto demonico. E si vedrà che non sono i fatti a contare: quel che conta, negli Increati, è proprio la lingua espressione del cogito più infero. La lingua liberata dell’Io: la lingua dell’assoluta alterità. Un linguaggio scollegato. L’impressione che se ne ha leggendo genera meraviglia. Paura e incantamento. Si rimane imbambolati e instupiditi. Però avvinghiati. C’è qualcosa in questa reiterazione ostinata e instupidente che tiene lì. Perché è giusta. Corallina. Uno sbrego di verità gemmea.
Poi nell’occhio del ciclone, dicevamo, ecco la perla. Scintilla. E’ lì. Il lettore la raccoglie. La custodisce. Non può non vederla. Superfluo persino condividerla. Indicarla. Se si potesse disegnare Gli increati sarebbe un libro dalle pagine nere e per ciascun capitolo un punto luminosissimo, d’accecante intensità. Qualcosa da raccattare subito, immediatamente fruibile e spendibile. Assolutamente barattabile. Perle, appunto. Gemme.
E ci sono anche, dicevamo, le scaglie di specchio. E’ vero che la morte viene prima della vita. Vero che la morte fonda la vita. Siamo in vita grazie ai morti. Camminiamo su strade costruite dai morti. Abitiamo case di morti. Quando veniamo al mondo c’è la morte che viene prima ad attenderci – ed ecco che il mostro s’impadronisce anche di chi scrive, la comunicazione già si altera, si pasticcia, il treno traballa pericolosamente. I morti hanno fondato la nostra civiltà. I vivi devastano. Eccole, le scaglie dello specchio. Il continente dei morti moreschiano è fatto di oggetti presenti anche nel nostro mondo. Pertanto guardando ciò che è familiare di quel mondo non possiamo fare a meno di pensare al nostro. I morti di quel mondo morto sono i morti di questo mondo morto: che noi, più sbrigativamente, ancora disposti a scendere a patti, non cedendo alla sincerità sciolta, diciamo vivo.
E come vengono rappresentati quei morti che sono anche questi morti, noi? Corrono. Corrono. A piedi. Su automobili fracassate sparate a velocità folli. A cosa vorrà alludere Moresco? Perché i morti sono di corsa? Forse perché siamo sempre e universalmente di corsa e in affanno? Ecco emergere un’interpretazione. Un appiglio. La ragione affonda ma ecco che trova un pezzo di legno e ci si aggrappa. Quantomeno la ragione di chi sta scrivendo queste parole. Altri per non annegare troveranno appigli differenti. Ma non ha molta importanza. Ecco cosa sono e a cosa servono le interpretazioni. A cosa servono le metafisiche e a cosa serve la pratica della trasfigurazione. Ritagliare un brandello di perché. Se non si può trovare all’interno, il brandello si strappa al di fuori. Altrimenti salta tutto. E’ il blackout di senso. La fine.
Perché nel continente dei morti i morti vengono fotografati dalla fotografa dei morti? Perché deificarla? C’è un messaggio, anche qui, che questa figura vuole suggerirci? Negli Increati ci sono messaggi semplici e ci sono messaggi più sottili: e va detto che i messaggi più evidenti vengono di solito esplicitati nel corso dell’opera stessa. Come qui: “Quando ero tra i vivi e mi muovevo nel mondo con il mio corpo che percepivo di tanto in tanto come vivo, mi sembrava sempre di venire da un’altra parte, da un’altra parte e da un altro mondo. Adesso che sono morto mi sembra ancora di venire da un’altra parte, da un’altra parte e da un altro mondo. Ve l’ho già detto: allora mi sembrava di vivere in un mondo di morti, adesso mi sembra di vivere in un mondo di vivi. Allora mi sembrava di combattere contro dei morti, adesso mi sembra di combattere contro dei vivi”. Perché la figura di Lazzaro si confonde con quella di Gesù? Perché il resurrettore non vuole risorgere? Perché La Pesca viene di nuovo abbandonata? Perché? Perché? Domandarsi il perché significa cercare il senso ovvero la direzione, la freccia. Ma in una costruzione gigamentale e consapevolmente multi direzionale come quella moreschiana la risacca schiumante di vettori si gonfia a ogni nuovo paragrafo. Ecco perché, dicevamo prima, quest’opera imbambola e instupidisce. Imbambola perché presumiamo subito a che cosa l’opera stia alludendo. Instupidisce perché questa stessa allusione ci lascia l’ombra del sospetto, abbisogna una rilettura, va addomesticata meglio.
Cosa possiamo dire che dia parvenza conclusiva a questo insieme di parole inerenti a parole che tentano di esprimere l’inesprimibile? Categorie di bello o capolavoro esplodono e si svuotano di significato difronte a romanzi come Gli increati. Ma noi, uomini e donne collocati nel tempo del postmodernismo, abbiamo imparato, forse ancora un po’ macchinalmente, a confrontarci con opere come queste. Non che Gli increati possa essere assimilabile ad altro. Non può esserlo in quanto, come detto, voce di una cogitazione unica. Perché postmodernismo significa post-linguismo, io assoluto, linguaggio scollegato: e in questo senso il genere dell’autofictiòn rappresenta forse l’esito più compiuto del cosiddetto postmodernismo. Tuttavia, come uomini e donne del tempo del cosiddetto postmodernismo, si è sedimentato in noi l’insegnamento che queste opere non sono belle in sé (e Antonio Moresco, va pur riconosciuto, è autore di tante opere belle in sé), ma il bello sta nel fatto che esistano e che con esse possiamo confrontarci. Ci vorrà tempo. Ci vorrà coraggio. Ma lo sappiamo. Ormai lo abbiamo imparato.
Pertanto, ecco, forse, un’affermazione che ha parvenza conclusiva: ogni uomo occidentale di questo tempo deve avere nella sua libreria Gli increati di Antonio Moresco. Ogni uomo che aspira a vivere in Occidente deve necessariamente possedere una copia da consultare nella propria libreria degli Increati di Antonio Moresco. Non può, un’opera come questa, essere presa a prestito da una biblioteca comunale e restituita dopo un mese. Va acquistata. Tenuta in casa. Per leggerla anche in anni e anni. Affrontarla in più momenti, nei giusti momenti.


Marco Candida