Circa 150 casi all’anno in Italia (157 nel 2012, 179 nel 2013, 152 nel 2014, 141 nel 2015, 145 nel 2016, 128 nel 2017, 106 nel 2018), un totale di oltre 1.000 femminicidi avvenuti negli ultimi sette anni. Il dato puramente statistico rappresenta che in Italia ogni 60 ore viene uccisa una donna. Nonostante questi valori preoccupanti, l’ordinamento italiano non prevede il femminicidio come ipotesi di reato autonoma ma solo come circostanza aggravante del delitto. La recente normativa (legge 15 ottobre 2013, n. 119, cosiddetta “legge contro il femminicidio”), nata per rispondere al “susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne e il conseguente allarme sociale che ne è derivato”, non definisce nella fattispecie il vero e proprio femminicidio, ma disciplina e rafforza le azioni rivolte a contrastare e prevenire la violenza di genere.
Questa inchiesta raccoglie le evidenze statistiche (e le storie) raccolte dalla lettura di oltre 400 sentenze di omicidio di donne emesse tra il 2012 e il 2016, qualunque sia stato l’esito o il rito processuale seguito dagli uffici giudiziari, successivamente trasmesse al Ministero di Grazia e Giustizia.
Chi ha ucciso, come e perché
Sono quasi sempre gli uomini a uccidere le donne, nell’88,5% dei casi. Nel 55,8% dei casi tra autore e vittima esiste una relazione sentimentale, in atto al momento dell’omicidio o pregressa. Se a questi si aggiungono i casi in cui tra autore e vittima esisteva una relazione di parentela si scopre che in circa il 75% dei casi le donne muoiono nell’ambito familiare, all’interno cioè di quell’ambiente che teoricamente dovrebbe proteggerle di più.
All’interno della classe di omicidi avvenuti tra partner il 63,8% dei casi evidenzia che la vittima e l’autore sono coniugi o conviventi, il 12% fidanzati, il 24% aveva intrattenuto una relazione sentimentale (matrimonio, convivenza o fidanzamento) terminata per vari motivi qualche tempo prima dell’omicidio. Dall’analisi emerge, soprattutto con riferimento al femminicidio, un profilo “primitivo” circa le modalità dell’omicidio. Non siamo solo in presenza di esecuzioni rapide con arma da fuoco, ma di veri e propri ammazzamenti a seguito di colluttazioni corpo-a-corpo in cui l’uomo sfoga una rabbia inaudita. L’arma prevalentemente utilizzata è il coltello, che richiama all’ambito domestico, all’uso del mezzo che si trova più a portata di mano nel momento del raptus.
Nel 40,2% dei casi la donna viene colpita ripetutamente e comunque quasi mai con solo uno o due colpi mortali, per poi essere spesso anche soffocata con le mani o il braccio e finita impiegando brutalmente e ripetutamente altri attrezzi fino a renderla esanime, a fracassarle il cranio. Ciò che colpisce che anche nel caso di utilizzo di arma da fuoco con cui presumibilmente un colpo sarebbe sufficiente, le sentenze raccontano che vengono sparati più colpi per infierire sulla vittima.
In molti casi l’autore ha cercato di occultare il cadavere, tra le tecniche utilizzate anche quella dell’incendio del corpo della donna uccisa. In altri casi le vittime vengono prima chiuse in bauli o valige e poi gettate in mare, nel fiume o in pozzi siti in luoghi isolati o, ancora, gettate tra le sterpaglie. In un paio di casi le vittime sono state sezionate e riposte in sacchetti di plastica, nascoste in frigorifero o nel terreno dell’abitazione dell’imputato.
In quasi la metà dei casi esaminati, è lo stesso autore del femminicidio a dare l’allarme e avvisare le forze dell’ordine, nel tentativo di depistare l’attenzione degli inquirenti su di sé e simulare la propria estraneità alla scomparsa della donna.
Non è invece stato possibile stilare una statistica precisa dei moventi, poiché molti sono “tortuosi” e difficilmente classificabili. I casi più frequenti sono sicuramente quelli legati alla sfera del rapporto sentimentale: gelosia, amore possessivo e morboso, intento di porre la compagna a sottomissione. Talvolta, alla base dei dissidi ci sono motivi economici, fino ad arrivare a casi limite in cui l’uomo uccide la donna perché preferisce la sua morte alle conseguenze del mantenimento della relazione oppure perché teme la scoperta di relazioni extra-coniugali, o, ancora, perché teme con la separazione di dover affrontare seri problemi economici cui non riuscirebbe a fare fronte.
A cosa serve denunciare?
Da Tortona il rifiuto alla attività divulgativa?
A nostro avviso sottovalutare il problema, sminuire il valore di una diffusione del messaggio, equivale a negare la possibilità ad altre donne di acquisire piena consapevolezza dei campanelli di allarme che possono fare la differenza tra salvarsi o diventare l’ennesimo nome aggiunto alla lista dei femminicidi: finchè si sceglierà di associare la giornata del 25 novembre a un paio di scarpette rosse vuole solo dire che c’è ancora molta strada da fare prima di imparare a tutelare le donne dal femminicidio. Forse l’aspetto peggiore di tutto questo è che la bocciatura al progetto arriva proprio dalle donne.
Annamaria Agosti
Fonte dati: https://www.istat.it/it/files/2017/11/Analisi-delle-sentenze-di-Femminicidio-Ministero-di-Giustizia.pdf