In una società multischermo in cui i nostri giovani acquisiscono precocemente dimestichezza con le tecnologie, ha ancora senso studiare il Latino? Come nell’età antica i nostri antenati furono chiaramente consapevoli che la loro disciplina principe, la retorica, non avrebbe avuto senso se svincolata da un impiego nella dimensione civile e sociale, così dev’essere chiara in noi la consapevolezza che l’esercizio di traduzione e la lettura in lingua dei testi latini concorre a formare cittadini consapevoli, dotati di spirito critico, di quella fluidità che permette loro di approcciarsi alla realtà in modo sempre problematico e costruttivo.
Umbero Eco, in un suo articolo apparso su “L’Espresso” nel 2011, sostiene che «Anche nel mondo della tecnologia l’avvenire è di coloro che sanno ragionare e sanno inventare nuovi mestieri e chi ha seguito studi di lingue classiche è maggiormente aperto all’ideazione e all’intuizione». L’esempio di Steve Jobs è in tal senso emblematico. Prepararsi al futuro, perciò, non significa solo capire come funziona un programma elettronico, ma imparare a concepire nuovi programmi. Il Latino è in grado di illuminare di nuova luce ogni ambito; la sua conoscenza deriva dal passato, ma apre domande sul presente e sul futuro. Studiare il Latino è come cercare di conoscere bene i propri genitori. Per questo motivo la tradizionale dicotomia tra materie umanistiche e materie scientifiche ha poco senso, poiché le une e le altre fanno parte di un unico sapere integrato.
Il Latino non è solo competenza, ma anche amore per il bello, e sostanzialmente per noi stessi e le nostre radici. In un mondo all’insegna della velocità può rappresentare per così dire il controcanto, il tempo lento e meditato della riflessione.
I docenti di Lettere del Liceo Scientifico “Amaldi” Giovanni A. Caccia, Patrizia Fava e Rosa Galetto