La storia non è nuova, anche se i fatti narrati sono freschi di accadimento: una problematica di sicurezza ambientale e di tutela dell’incolumità delle persone, c’è chi vede, capisce cosa sta accadendo e quel che potrebbe accadere e segnala il fatto a chi di dovere con tutti i dettagli e gli elementi utili, poi ad un certo punto, ecco che qualcosa si inceppa: il corso delle pratiche buone e civili si infrange contro l’italico muro di gomma delle istituzioni, va a cozzare con l’omertà dei presenti, di chi ha assistito, perché il “problemuccio” riguarda un’ottima famiglia, intoccabile, ed i testimoni del fatto improvvisamente ammutoliscono, abiurando il corso della giustizia (se pur solo amministrativa) e vanno eclissandosi in scuse stemperate che spaziano dal “non posso, tengo famiglia” al “cerca di capirmi, io ci lavoro”. Se avere famiglia e lavorare in un luogo garantisse una qualsiasi forma di incolumità, non si capisce la ragione delle migliaia di morti per mesotelioma tra i lavoratori esposti alla fabbricazione dell’Eternit ed i loro famigliari a casa, ad esempio.
E forse per una sorta di beffa del destino, quanto sopra accade una manciata di chilometri da dove tre decenni fa qualcuno (in realtà, più di uno) si cimentava in scorribande notturne su e giù per lo Scrivia, ad interrare quei bidoni che in buona parte ancora oggi giacciono indisturbati, monumento ad una omertà che pare non essere più appannaggio esclusivo dell’isola del sole, ma vien quasi da pensare sia diventata un esercizio ben praticato anche a livello locale, in un perfetto ciclo trentennale di equilibrio fra corsi e ricorsi storici.
La sete di una società migliore ancora una volta soccombe davanti alle più pratiche e immediate necessità “di pancia”. Però, secondo i trattati di medicina, si muore più rapidamente per la sete, piuttosto che a causa della fame. E senza nemmeno piangere, perché la disidratazione si porta via anche le lacrime.
Annamaria Agosti
27 ottobre 2015