Le pitture fotocatalitiche che vorrebbe utilizzare il Comune, infatti, non contribuiscono ad abbattere il particolato sospeso nell’aria (le ben note Pm10 e Pm 2,5) bensì innescano delle reazioni chimiche volte ad intercettare solamente alcune frazioni disperse nell’aria, quali le sostanze organiche volatili (VOC) e gli ossidi d’azoto (NOx), trasformandoli in componenti diversi. Al di là delle reazioni chimiche, nelle quali il biossido di titanio contenuto in questi materiali agisce unicamente da catalizzatore (ha cioè il ruolo di “attivare” le reazioni), le altre sostanze sospese nell’aria vengono interessate solo marginalmente dall’azione del TiO2, che non possiede di per sé particolari capacità di abbattere le polveri sospese; anzi, secondo alcuni studi recenti potrebbe addirittura esporre ad ulteriori fonti di inquinamento e potenziali, possibili pericoli. Ma procediamo con ordine.
Il particolato Pm10 e Pm2,5 può avere origine sia da fenomeni naturali (processi di erosione del suolo, incendi boschivi, dispersione di pollini, ecc.) sia da attività antropiche, in particolar modo dai processi di combustione e dal traffico veicolare (particolato primario). Esiste, inoltre, un particolato di origine secondaria che si genera in atmosfera per reazione di altri inquinanti come gli ossidi di azoto (NOx), il biossido di zolfo (SO2), l’ammoniaca (NH3) ed i Composti Organici Volatili (VOC).
Buona parte delle sostanze in sospensione nell’aria – stando alla bibliografia diffusa dai produttori medesimi – non vengono intercettate dai materiali fotocatalitici, che agiscono solo sui composti gassosi (il particolato secondario). Secondo una valutazione effettuata dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) sui processi di fotocatalisi interessati da questi nuovi materiali per edilizia, “L’evoluzione del particolato sulle superfici fotocatalitiche è ancora oggetto di speculazione scientifica. La parte inorganica, costituita da composti già ampiamente ossidati, non dovrebbe alterarsi.”
Che il particolato presente sulle strade, costituito principalmente da residui di usura del manto stradale, dei freni e delle gomme delle vetture, non rientra tra le sostanze che vengono “fissate” dai nuovi materiali, lo afferma anche lo stesso Ministero. Le “Linee Guida per l’utilizzo di sistemi innovativi finalizzati alla prevenzione e riduzione dell’inquinamento ambientale” indicate dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio riportano con il Codice ST001, le proprietà dei materiali fotocatalitici: “malte, pavimentazioni, pitture, intonaci e rivestimenti contenenti sostanze fotocatalitiche con biossido di titanio per la riduzione di ossidi di azoto, composti organici volatili, batteri e di altri inquinanti atmosferici”. Non si parla affatto di polveri sottili, ma di componenti aeriformi, ossidi di azoto, composti organici volatili e batteri presenti nell’aria.
Tornando ai materiali a base di ossido di titanio di prossima adozione, come accennavo in apertura su di essi la comunità scientifica sta sollevando diverse perplessità. Una su tutte: le ridotte dimensioni di questi additivi a base biossido di titanio potrebbero esporre a ulteriori rischi, in quanto inalabili e con possibilità di penetrare in profondità nell’apparato respiratorio. Mi spiego meglio: tutti abbiamo sentito parlare dei vari gradi di pericolosità del particolato: più il valore che accompagna la sigla Pm è basso, più pericolose per la salute sono le polveri. E’ per questo motivo che viene effettuato il monitoraggio ambientale di PM10 (polvere inalabile, in grado di penetrare nel tratto respiratorio superiore) e PM2,5 (polvere toracica, cioè in grado di penetrare profondamente nei polmoni). Le nanopolveri impiegate in questi nuovi materiali hanno una dimensione che corrisponde a un valore Pm 0,001.
Questo dato si commenta da solo. Una volta all’interno del corpo le nanoparticelle sono sufficientemente piccole da penetrare facilmente nelle cellule e per le loro contenute dimensioni potrebbero promuovere interazioni con biomolecole, alterando il normale funzionamento cellulare.
Due anni fa, il Professor Davide Manucra dell’Università di Bologna sollevò più di una eccezione alle entusiastiche argomentazioni dei produttori di questi nuovi materiali, attraverso un dettagliato articolo pubblicato dalla rivista Ecoscienza di ARPA Emilia Romagna. Le perplessità da lui espresse non andrebbero sottovalutate, considerato che lo studio riguarda la potenziale pericolosità di una esposizione continuativa e giornaliera a prodotti contenenti nano particelle di biossido di titanio, i pericoli di accumulo negli organismi ad esso correlati e, conseguentemente, la possibilità di raggiungere concentrazioni critiche da un punto di vista tossicologico; teniamo presente che è una situazione a cui i tortonesi potrebbero essere esposti, impiegando in città questi prodotti sotto forma di malte, pavimentazioni, pitture, intonaci e rivestimenti, in ottemperanza alla delibera recentemente adottata dalla Giunta Bardone.
Per quanto riguarda i dati epidemiologici, i lavoratori esposti a al biossido di titanio respirabile tendono ad accumularlo a livello polmonare, dove provoca fibrosi . Uno studio epidemiologico retrospettivo condotto in sei Paesi europei ha evidenziato un piccolo ma significativo aumento della mortalità per tumore polmonare tra i lavoratori maschi esposti a TiO2, rispetto alla popolazione generale.
In Italia, anche il dipartimento di Medicina del lavoro dell’INAIL si è interessato al tema, con la pubblicazione “Effetti sulla salute dei nanomateriali ingegnerizzati”.
Benché al momento non supportate in modo chiaro da dati epidemiologici, le evidenze sperimentali sono state ritenute sufficienti dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) per inserire il biossido di titanio (precedentemente considerato un materiale inerte) in classe 2B “possibile cancerogeno per l’uomo”. Recentemente, anche il NIOSH (National Institute for Occupational Safety and Health, USA) ha classificato TiO2 nanoparticellare come un “cancerogeno occupazionale”.
Ieri: l’amianto
Era l’anno 1976, e sui principali quotidiani europei comparivano diverse pagine pubblicitarie, a veicolare il messaggio «I problemi che pone l’amianto sono irrilevanti in confronto agli enormi servizi che vi rende ogni giorno senza che neppure lo sappiate».
A questo ottimismo dei produttori faceva da contraltare l’allarme, sostenuto con sempre maggiore enfasi, dalla comunità scientifica. Il lungo periodo di incubazione della malattia – fra i 20 e i 25 anni – ha, purtroppo, impedito che la relazione tra l’esposizione alle fibre e l’insorgere dei sintomi emergesse in tutta la sua drammatica evidenza.
Centinaia di migliaia di morti tra mesotelioma, tumori polmonari e asbestosi, si sarebbero forse potuti evitare, se fossero state adottate idonee limitazioni all’uso dell’amianto sin da quando iniziavano ad emergere le prove scientifiche sulla pericolosità del materiale. Quando i topi di laboratorio si ammalavano di cancro ai polmoni dopo essere stati esposti alle polveri di amianto, in sostanza.
Oggi: il biossido di titanio?
Una direttiva ministeriale “consiglia” l’uso di nuovi materiali, che non risolvono, peraltro, la principale causa di inquinamento della Pianura Padana (le polveri sottili), e dall’altro lato, la comunità scientifica che inizia già a produrre evidenze di possibili pericolosità e ripercussioni sulla salute umana. Sembra una storia già vista.
Eppure, dalla vicenda dell’amianto dovremmo aver tutti imparato la lezione, da tenere bene a mente, per evitare il ripetersi di simili e drammatici errori di valutazione. Almeno, questo è l’auspicio.
Una professionista che si occupa di Autorizzazioni Ambientali e Sicurezza sul Lavoro
(Nome e Cognome del professionista sono stati omessi per non pubblicizzare lo studio professionale)
17 settembre 2015