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8 marzo, la storia di un donna che lavorava al cotonificio Dellepiane di Tortona: Ninetta.

dellepiane 2IQuesta storia inizia dal cancello lungo la strada, quello che divide la manifattura, l’opificio, la fabbrica, dalla città, nel primo ‘900. Quegli spazi e fabbricati dove fumo, rumore, movimento la fanno da padrone, ma rimangono celati alla città da cortine, da fronti, che esprimono la dignità civile dell’edificio, il suo porsi nella compagine urbana come spazio speciale, i templi del lavoro.

Dietro quelle cortine murarie in laterizio, le stanzette per il controllo di operai e operaie che certe volte si portavano via il filo. Poi incomincia il cotonificio. Lì dentro pulsano, ancora impresse nella memoria e nei racconti tramandati, le storie del cotone che sto cercando.

Alcune erano vere come quelle dei ragazzini e ragazzine che entravano a lavorare a dodici anni, altre erano inventate, erano fiabe, perché la fabbrica, lo stabilimento, e soprattutto il salario che questo lavoro garantiva, nell’immaginario popolare della dura vita di campagna equivaleva ad una sicurezza principesca.

Adesso quei racconti hanno perso il fascino sognante che ne rappresentava l’alito di vita, si chiamano “leggende metropolitane”, però una volta erano proprio fiabe, come quelle che raccontavano i nonni contadini degli operai del cotone, sotto i porticati delle cascine nelle sere d’estate, o raccolti attorno al fuoco del camino, in inverno.

Io non c’ero nello stabilimento, la sirena che chiamava le operaie al lavoro e che le liberava alle 5 del pomeriggio ha smesso di suonare nel 1980 quando avevo 15 anni. Io quella fabbrica non l’ho vissuta, ma l’ho vista cadere a pezzi ed arrendersi a ragnatele e vetri rotti. Io ho sentito racconti e narrazioni, ma non c’ero. Così ho pensato di raccontare anche io la mia fiaba.

Una fiaba dove il personaggio è una bambina entrata in Cotonificio a dodici anni, di nome Ninetta. Gli avvenimenti e gli ambienti sono quelli della fabbrica, ma lo sguardo è quello che restituisce la leggenda. Una verità leggendaria in cui si mescola la concretezza del vissuto e la leggerezza surreale dell’immaginazione. Inizia dietro quel cancello, dove adesso c’è una ragnatela….

Ricordi, Ninetta? Era il mese di febbraio, ed avevi da poco compiuto 12 anni. Eri andata a lavorare per castigo: non volevi più andare a scuola perché avevi combinato una marachella alla maestra. E la mamma disse che dovevi scegliere: o andavi a lavorare, o tornavi a scuola. Avevi scelto di lavorare. Il primo impatto con la fabbrica, per te che eri piccina, era stato forte. E quante lacrime soffocate dall’orgoglio, la sera, mischiate nella minestra….

Come te, tante altre, prese a lavorare all’età minima consentita per legge (12 anni a quei tempi), messe alla prova per sperimentarne laboriosità e capacità nelle mansioni più semplici, da ausiliarie, da attaccafili e spolatrici e poi, dopo un breve apprendistato, messe al telaio. Bambine che si facevano donne in fabbrica, che contribuivano col loro lavoro al sostentamento familiare, ad un’economia povera ai margini della sussistenza, senza però mai perdere l’allegria, la fiducia, l’ironia. Si entrava in fabbrica poco più che bambine, prese perché a quell’età imparavate presto e bene a lavorare sui telai, e a quelle che non ci arrivavano mettevano lo sgabellino sotto i piedi, in quell’ambiente umido e rumoroso che faceva inorridire le più piccole e le più giovani, ma poi, quando si vedeva arrivare il salario ci si rallegrava, si cambiava parere, ecco che lì ogni affanno veniva cancellato dall’oblio e dalla gioia di sentirsi grandi, di riuscire a dare aiuto alla propria famiglia con quella paga che, spesso, rappresentava l’unico introito. Tu, Ninetta, quando avevi preso la prima paga, dall’emozione nemmeno vedevi più la strada per tornare a casa di corsa e portare quella busta, così preziosa, alla tua mamma.

Lo stabilimento Dellepiane

Passava il tempo e ti facevi più grande. Della fabbrica ti piacevano il lavoro, l’ambiente e le amicizie. Crescevi con le tue compagne e, col passar degli anni, queste sono diventate amiche vere. Tra di voi c’era molta solidarietà ed eravate pronte, sempre, ad aiutarvi nel momento del bisogno; altrettanto pronte eravate a divertirvi, a scambiar battute, a fare quattro chiacchiere tornando verso casa, a piedi, lungo la passerella.

Prendevano soprattutto donne, al Cotonificio, perché avevano più manualità: bisognava essere molto precise, soprattutto quando si spezzava il filo, bisognava riannodarlo e c’era bisogno di una manualità rapida e delicata, che l’uomo possedeva meno. Poi c’erano le officine, la manutenzione, la dirigenza, il capo reparto, il capo sala che erano uomini. Le donne a quei tempi erano scelte un po’ perché le pagavano meno ed un po’ perché avevano anche questa manualità. Poi sono subentrate anche le macchine che riannodavano da sole il filo…

Quello che rimane oggi

Lì, nella fabbrica Dellepiane, si lavorava in un ambiente chiuso, con il 90 % di umidità necessaria perché il filo non si spezzasse. Spesso ci si ammalava di asma, di dolori reumatici e di tubercolosi. Il tessile era uno dei settori più caldi e umidi, e tante operaie soffrivano già in giovane età di forme reumatiche. Tu, Ninetta, nella vecchiaia avresti sofferto di quei dolori, che ti erano passati dentro le ossa. Là dentro si soffriva per l’umido e per il caldo. C’erano le finestre però nessuno mai le apriva perché se l’umidità non era sufficiente le macchine andavano male, e se andavano male toccava lavorare di più, si imbrogliava tutto il cotone e ci voleva tempo a disfarlo…

Le condizioni di lavoro erano pericolose e gli operai di tutte le età, bambini compresi, spesso erano esposti a macchinari capaci di menomare o messi in ambienti polverosi o dalla temperatura elevata, elementi che portavano spesso a malattie mortali. I lavoratori perdevano spesso dita o addirittura arti a causa dei macchinari che dovevano far funzionare. Nonostante le terribili condizioni, il lavoro non mancava e c’era un grande numero di posti di lavoro disponibili, sia per gli uomini che per le donne, a cui veniva garantita così una certa indipendenza economica, anche se la donna, in quella fase industriale, era vista unicamente come produttrice.

Con il termine dell’attività, nel 1980, è calato il tramonto su un modello di lavoro e di società che aveva animato buona parte del secolo scorso, con il vuoto che ne è potuto conseguire.

Ora lo stabilimento non c’è più, rimangono ancora   testimoni di quell’operoso passato la ciminiera e l‘ultimo capannone, ancora da destinare a nuovo uso. Il teatro è rimasto incompiuto, e là dove c’era il capannone del filatoio, adesso si studia per la laurea in infermieristica, o perlomeno, lo si potrà fare finché ci saranno soldi, e poi….

Ninetta, quando sarà finito il pane, come ci reinventeremo la vita?

­Annamaria Agosti



Ringraziamenti: senza gli apporti fotografici di Giacomo Seghesio e Massimo Galluzzi questo racconto sarebbe stato zoppo. Grazie per la collaborazione. A Massimo, in aggiunta, un meritatissimo croccantino. Lui capirà…

7 marzo 2015

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