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LETTERE IN REDAZIONE: A Tortona sorgerà un biodigestore, ma che cos’è? Sarà pericoloso?

Egregio Direttore,

Visto che alla periferia della città sorgerà un biodigestore, ho deciso di documentarmi su cosa sia e condividere con i lettori del giornale alcune informazioni per capire anche il possibile impatto che un impianto del genere potrebbe avere sulla collettività.

 

L’utilizzo del digestato proveniente da matrici organiche di ogni tipo, animali e vegetali, di FORSU e fanghi di depurazione delle acque luride pare, secondo taluni studi, che possa esporre a gravi rischi di contaminazione biologica, i terreni agricoli utilizzati per la produzione di alimenti, nonché la fauna selvatica e l’uomo.

La sicurezza che il trattamento di digestione anaerobica rappresenti una modalità assolutamente  sicura, in grado di abbattere le cariche dei principali agenti patogeni, pare non trovi riscontro nella letteratura scientifica. Perlomeno, secondo il parere di Gianluigi Scolari, docente di microbiologia alimentare presso l’Università cattolica del Sacro Cuore di Piacenza.

 

Un biodigestore spiegato in maniera semplice


Per capire il motivo di questo potenziale pericolo, innanzi tutto bisogna capire come funziona un biodigestore.

I digestori sono degli impianti in cui s’immettono le biomasse (nel caso nostro caso, costituito dalla frazione organica della raccolta differenziata, falciature di verde e fanghi di depurazione delle acque) affinché queste sostanze vengano trasformate dall’intervento di specifici batteri che operano una degradazione organica. In parole povere, il pattume ed i fanghi vengono messi a marcire in condizioni di temperatura e pressione controllate. Durante la fermentazione, i batteri trasformano la massa rilasciando metano; questo gas viene successivamente trasformato in energia elettrica tramite un motore (che produce anche calore). Quanto rimane nel serbatoio al termine dei processi di “digestione” dei batteri si chiama “digestato”. Tale sostanza viene ulteriormente riutilizzata come ammendante o concime nei campi.

In teoria il ciclo è perfetto e senza sprechi: si usano scarti per produrre energia che può servire all’azienda stessa ed essere venduta se in eccedenza. E ciò che avanza si può ancora riutilizzare nell’ambiente.

Questo scenario sarebbe ottimo se l’impianto fosse piccolo, confinato all’interno del ciclo produttivo di una azienda agricola, con il conferimento di biomasse e lo smaltimento dei residui effettuato a Km0; di fatto, invece, visti gli allettanti prezzi che la vendita di energia riesce a spuntare sul mercato, è diventato molto conveniente fare impianti grandi, che hanno come scopo principale trasformare questo ciclo, teoricamente perfetto ed equilibrato, in una fonte di guadagno.

Più l’impianto è grande, più potenza può produrre (il che, equivale a maggiori guadagni); ma per produrre, necessita di materia prima da fermentare nel reattore. I 24mila transiti di camion all’anno, di cui ho trattato precedentemente, movimenteranno sia materiali in ingresso che, è logico pensare, anche in uscita. Le aree agricole adiacenti non sarebbero in grado di accogliere tutto quel digestato. Possiamo, realisticamente, ipotizzare che andrà destinato anche altrove? Caricare una massa ricca di germi (perché di questo si tratta!) e trasportarla via camion chissà dove, è una procedura immune da rischi?

Da queste due considerazioni appena espresse, nascono i dubbi di natura microbiologica.

 

Lo scetticismo del microbiologo Scolari

 Le perplessità inerenti al biogas non dovrebbero riguardare unicamente le potenziali emissioni odorigene; più di un dubbio aleggia sulla sicurezza, dal punto di vista microbiologico, del trattamento di digestione anaerobica.

 Per il funzionamento dell’impianto, si impiegherebbero infatti scarti animali e vegetali di vario tipo e provenienza;  ed appare verosimile che FORSU e fanghi di depurazione, variamente mescolati, rappresentino un mix potenzialmente molto pericoloso sotto l’aspetto microbiologico.

Gianluigi Scolari, docente di microbiologia degli alimenti all’Università Cattolica di Piacenza , in una lunga intervista più volte ripresa dai comitati contrari al biogas ( http://www.e-cremonaweb.it/index2.php?option=com_content&do_pdf=1&id=3102), argomenta in maniera impeccabile sui rischi, la cui portata non è preventivabile, dei residui della fermentazione, di quel “digestato” che, in prima istanza, pareva la perfetta chiusura del cerchio per ottenere energia pulita.

«E’ logico  ritenere – evidenzia il docente – che gli impianti per la produzione di biogas possano rappresentare un potenziale pericolo per la presenza di microrganismi patogeni». Altro aspetto stigmatizzato da Scolari è «la difficoltà a replicare in laboratorio il comportamento delle componenti batteriche presenti in un digestore “reale”»: infatti, «occorrono sperimentazioni ampie e generalizzate in grado di contemplare le molteplici situazioni reali in relazione alla variabilità del substrato di alimentazione del digestore»; soprattutto, quando nel processori fermentazione finiscono anche substrati igienicamente problematici quali possono essere, nel nostro caso, i fanghi di depurazione delle acque luride.

L’impossibilità di condurre studi pilota, per l’ampia variabilità del substrato (la composizione dei rifiuti, ed i fanghi di depurazione) conferito dai camion che trasporteranno al biodigestore quella frazione FORSU o i fanghi proveniente da “ovunque”, non consente peraltro di poter escludere possibili o probabili rischi microbiologici nei digestati. Per lo stesso motivo, lo smaltimento effettuato in aree anche lontane potrebbe generare notevoli criticità diffuse, nello sventurato caso emergessero problemi di carica batterica potenzialmente pericolosa. Se lo smaltimento fosse circoscritto, anche gli eventuali interventi “riparatori” sarebbero immediati. Mentre, tramite il trasporto incontrollato di spore prodotte in siti specifici, appare potenzialmente possibile innescare un pericolo diffuso per la salute per l’uomo e gli animali. Con il digestato (quello che appariva in prima istanza il miglior concime e ammendante) le spore tornano sul terreno. Sia che vadano a contaminare foraggi raccolti e somministrati in mangiatoia o, direttamente,  animali domestici e selvatici al pascolo, le spore arrivano nell’intestino,dove possono germinare e possono produrre tossine. Se gli scarti dei biodigestori cominciano a viaggiare per essere smaltiti, controllarli diventa molto difficile.

L’eventuale sanificazione dei liquami o fanghi o, comunque, dei sottoprodotti, pare non rappresenti un rimedio sufficiente; sempre secondo Scolari «questa stabilizzazione riduce la carica degli enterobatteri ma, secondo alcuni studi, faciliterebbe una re-contaminazione dei digestati da parte di Escherichia coli e Salmonella, oltre che altre specie non meno patogene».

Va aggiunto che, in Danimarca, Svezia, Austria, Germania e Gran Bretagna esiste un rigido protocollo di regole che impongono trattamenti di sanificazione, e che prevedono severi controlli microbiologici (mediante l’utilizzo di bioindicatori) su quanto destinato ad essere utilizzato come concime. In Italia, tristemente, questo non è sottoposto a pari normative di sicurezza.

Infine, c’è il problema dei Clostridi, che si configura come uno dei punti più critici, anche in relazione ai depositi di digestato sui terreni coltivi. I Clostridi sono una grande famiglia di batteri anaerobi ubiquitari (sono presenti normalmente anche nel nostro intestino e sono tra i principali attori della fase di idrolisi del biogas) che comprende anche specie responsabili dell’alterazione dei formaggi, e specie che possono provocare infezioni più o meno gravi, compresi botulismo e tetano.

Malattie di cui il solo nome evoca scenari decisamente poco rassicuranti.

I Clostridi, in condizioni ambientali particolari, formano spore resistenti al calore, alla radiazione ed a diversi agenti chimici, per cui anche la pastorizzazione risulta inefficace. Secondo Scolari «sono pressoché inesistenti sperimentazioni di valutazione del rischio che il terreno possa arricchirsi di spore di Clostridi delle specie patogene, ma anche di quelle che degradano i prodotti alimentari e caseari in primis».

Per ora nessuno ha smentito queste tesi, poiché, come è difficile dimostrarle, è difficile smontarle, ma basti dire che la Svezia, altro Paese all’avanguardia da anni, obbliga a pastorizzare i liquami in ingresso e i concimi in uscita dalle aziende per evitare contaminazioni. Forse non è nemmeno un caso che la Regione Emilia Romagna nelle sue linee guida abbia vietato gli impianti a biogas nei territori dove si produce il Parmigiano Reggiano?

Pare poi che proprio dalla Germania, nazione leader in Europa per il biogas, affiorino ulteriori perplessità riguardo il rischio sanitario dei residui di produzione, che secondo alcuni esperti  non è legato solo ai clostridi o ad altri batteri patogeni. Nel 2011 venne additato il biogas quale probabile causa dell’epidemia di Escherichia coli E157:H7, la variante del ceppo che causò 50 vittime, il ricovero di  4.174 persone, 864 delle quali colpite da insufficienza renale acuta, una patologia che spesso si può curare solo con la dialisi.  Quella epidemia guadagnò il secondo posto nella classifica delle intossicazioni alimentari europee, dopo la Mucca pazza.

Dimostrabili o meno che siano, le ipotesi dei microbiologi prospettano notevoli pericoli, che interessano sia la salute umana che gli animali, pericoli di cui si sarebbe dovuto tenere debito conto in fase di Conferenza dei Servizi e di cui non ho visto traccia; nessuna domanda, nessuna perplessità espressa al riguardo.

Come possiamo sentirci tutelati, sotto il profilo sanitario, se non viene fatta chiarezza sulla qualità microbiologica del materiale in entrata ed in uscita, dal biodigestore? Chi deve fare queste domande? Come possiamo avere, delle risposte? E soprattutto, esistono, delle risposte?

Sono previste analisi merceologiche sui rifiuti in ingresso, indagini sulla stabilità biologica ed indagini sulle emissioni, sia microbiologiche (bioaerosol) che odorigene (olfattometria)?

In che modo, il Comune controllerà la corretta gestione dell’impianto? Non vorrei, un giorno, scoprire che, all’Amministrazione locale, poteri al riguardo non ne siano rimasti.

Annamaria Agosti

25 febbraio 2014

 

 

 

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