Chi è cosa fa nella vita e dove vive Giulio Massobrio?
Scrivo libri e mi occupo di progettazione museale, il tutto con Daniela, mia moglie. Ma anche il resto della famiglia, due figlie e una gatta, partecipa attivamente alla scrittura dei libri, condividendo la casa con il commissario Piazzi e gli altri personaggi dei romanzi. Tutto ciò avviene in Alessandria, una città con molti problemi nella quale oggi è difficile vivere.
Chi è per te uno scrittore e come pensi venga visto dalla gente?
È difficile dire come gli altri ti vedono. Alcuni con simpatia, qualcuno con ammirazione, ma esistono anche quelli che ti dicono: “Ho visto che hai scritto un altro libro. Si vede che non hai niente da fare”. Sorridono, ma si capisce che lo pensano davvero. Essere scrittori significa cercare di raccontare una storia, contemporanea o passata, magari anche futura, con i tuoi occhi e la tua sensibilità. Un’esigenza, ma anche un piacere. In ogni caso un lavoro duro.
Ricordo una volta, un milione di anni fa. Ero bambino, diciamo sette-otto anni. Mi avevano parlato di Dante, non so dire se sia stato mio papà o il maestro a scuola. Mi ero esaltato, come quando andavo al cinema e vedevo un film di cow boy o di guerra: tornavo a casa e giocavo per giorni a quella storia che avevo visto. In questo caso mi ero messo a scrivere su fogli grandi che poi arrotolavo, come fossero pergamene antiche. Credo che sia stato l’inizio, ma ancora oggi provo l’identico piacere e scrivo con la stessa intensità di quando giocavo da bambino.
Come nasce quello che scrivi e su cosa ti piace scrivere in particolare?
Da un’idea, da un desiderio, da un rifiuto. Sempre da un sentimento forte, spesso da una storia vera che ho sentito raccontare. I miei romanzi sono pieni di storie realmente accadute: la realtà è infinitamente più varia e imprevedibile di qualsiasi invenzione letteraria. Raccontare è bellissimo, come ascoltare chi sta raccontando una storia. È un’attività fondamentale, come respirare, ed è quella sulla quale gli esseri umani fondano la loro crescita.
Hai scritto tra gli altri “Bianco rosso e grigioverde” e “Occhi chiusi”, ce ne vuoi parlare?
Apparentemente due cose diverse, in realtà la stessa. Nel primo reclamavo, giovane e ottimista, la democratizzazione delle forze armate, rifacendomi come modello alla Costituzione. Il libro, che non era certamente eversivo, mi valse l’occhiuta attenzione di molti servizi dello Stato. Un libro e uno Stato degli anni Settanta (anche se di recente ho conosciuto una persona che ancora ce l’aveva con me per quel libro).
“Occhi chiusi” racconta una storia ambientata più di dieci anni prima, ma sempre legata a un’Italia che per crescere deve superare gap terrificanti e resistenze incredibili, e un poliziotto che per fare il suo lavoro deve scontrarsi con l’occhiuta burocrazia del potere.
“L’eredità dei Santi” è il tuo ultimo romanzo, ce ne vuoi parlare?
Parte da una storia vera ed è costituito da una trama di vicende realmente accadute, anche se modificate e adattate alla storia che volevo raccontare. Ambientato in val Borbera, una valle fantastica, selvaggia e misteriosa alle porte di casa. Qui tutto sembra possibile, anche un viaggio in America e una valigetta piena di soldi. La struttura è quella di un giallo classico (delitto-inchiesta-soluzione), ma l’ambiente e le storie personali hanno il sopravvento sullo schema tradizionale, finendo per diventare il vero oggetto del romanzo.
In collaborazione con Marco Gioannini hai scritto: “Custoza 1866”, “Marengo” e “Bombardate l’Italia”, ce ne vuoi parlare?
La collaborazione con Marco è stata un’esperienza bellissima, che spero si rinnovi già quest’anno. Abbiamo scritto tre libri di storia militare, credo di buona qualità. Nei primi due siamo partiti dall’idea che la vicenda dovesse essere raccontata dai molteplici punti di vista dei partecipanti, che sanno come comincia una storia, ma mentre la vivono non sanno come andrà a finire. Il libro sui bombardamenti, invece, racconta la tragedia dell’Italia bombardata e fatta a pezzi, priva di difese e obiettivo di un gioco di guerra globale. Un libro che denuncia l’incapacità politica e militare del regime fascista che ha scatenato una guerra senza nemmeno avere gli strumenti per difendersi.
Stai già scrivendo il tuo prossimo romanzo, ce ne puoi parlare?
È quasi finito. Un giallo storico, una spy story ambientata nel 1944, ma iniziata molto prima. Una storia di ricerca attraverso un’Italia lacerata dalla guerra e dall’occupazione nazista. Una vicenda di fantasia, ma fondata, come in tutti i miei libri, su vicende e personaggi veri.
Collabori con qualche sito specializzato?
No, anche se mi piacerebbe lavorare sull’idea del giallo storico, che non è solamente un mistery ambientato in un’epoca diversa, ma narrazione di un’epoca nella quale avvengono fatti misteriosi che a essa sono legati strettamente. Un omicidio avvenuto nel 1930 presenta caratteristiche culturali, sociali, antropologiche totalmente differenti da un omicidio avente le stesse caratteristiche, ma compiuto nel 2010.
Quali sono i tuoi autori preferiti?
Tanti. Fra i giallisti Ledesma, Vargas, oltre a numerosi classici. Fra i romanzieri Simenon, Camus, Malraux. Il libro più straordinario? Il grande gioco, di Hopkirk: storia che sembra fiction.
Come vedi il presente e il futuro della cultura nel nostro paese e in particolare in Alessandria?
Spero che sia salvata in extremis da una grande sollevazione morale del nostro paese, ma gli interessi personali e di cosca sono troppi e troppo forti. Tutti parlano, ma mentono. La cultura, per definizione, è libera, quindi pericolosa. E poi non è vero che è il petrolio del nostro paese: per fare cultura e guadagnare da questa occorrono reti efficienti, investimenti, infrastrutture. Tutte cose ritenute meno importanti di un punto di PIL.
Ad Alessandria, se possibile, è peggio. Qui si governa consultando un libro mastro, unico libro che conoscono. E non da ora ed è un peccato perché sono stati realizzati in passato interventi organici mirati a costituire una rete culturale locale forte e sana: la rete dei Musei civici, quella bibliotecaria, il Museo di Marengo, il Gabinetto delle Stampe, la Fototeca, il Museo delle Scienze, quello del Fiume, eccetera. Tutto buttato via, distrutto, cancellato dalle ultime due amministrazioni i cui interessi erano e restano altri. D’altra parte se si vuole asservire una città, o un intero Paese, bisogna partire da un obiettivo preliminare: distruggere il tessuto connettivo della popolazione, la sua cultura, le ragioni della sua esistenza.
Uno scrittore come immagina la politica e che cosa vorresti chiedere ai politici?
La politica è l’attività più elevata che una comunità possa esprimere, lo strumento per garantire a tutti libertà, benessere e felicità. Questa politica è guerra di bande, di cosche cresciute intorno a interessi personali, di sentimenti meschini. È autistica, cieca, sorda. E i politici, salvo rare eccezioni, corrispondono a questa degenerazione del tessuto democratico. A costoro non si può chiedere nulla. Bisogna, invece, ricominciare da capo, dalle idee fondanti della Repubblica, dalla Costituzione e dalla storia. Guardando cosa hanno fatto i nostri progenitori nel 1799, nel 1821, nel 1848, nel 1943, nel 1946. La risposta è davanti agli occhi di tutti: passione civile e democratica. Il resto è lenta decadenza.
Qual è la tua opinione sulla situazione di Alessandria?
Vale la risposta precedente.
Che consigli ti senti di dare ai giovani che vorrebbero iniziare a scrivere?
Leggere, leggere, leggere. Poi iniziare a scrivere di cose che conoscono. Poi tagliare senza paura.
Programmi per il futuro e sogni nel cassetto?
Un libro che parla di Africa e di un pugnale che arriva da lontano.
Pier Carlo Lava
2 febbraio 2014