Per Armstrong, dunque, i corridori di ogni epoca hanno sempre cercato «un aiuto», dunque lui non si considera la pecora nera del gruppo. «La mia generazione non è stata molto diversa da quelle che l’hanno preceduta. Si sono soltanto evoluti i metodi per migliorare le prestazioni agonistiche. Un secolo fa ci si aggrappava ai treni, ora c’è l’eritropoietina: la differenza è soltanto questa. Nessuna generazione è stata immune dalle pratiche vietate, anche Fausto Coppi ha fatto uso di sostanze dopanti”.
Ed è proprio da questa dichiarazione che ci siamo sentiti in dovere di approfondire una tematica così scottante per il nostro territorio: il Campionissimo deve davvero la sua grande mole di vittorie a biechi trucchetti da saltimbanco?
Per rispondere a questa domanda e chiarire una volta per tutta la vicenda abbiamo contatto Filippo Timo, grande conoscitore di Fausto Coppi e autore di numerose pubblicazioni a riguardo tra cui “Viva Coppi” uno dei migliori scritti in circolazione sull’Airone di Castellania.
Dott. Timo, quanto di vero c’è nelle dichiarazioni di Lance Armstrong?
“Armstrong non è di certo il primo a sollevare la questione dell’uso del doping nelle epoche passate. È nota l’intervista radiofonica nella quale Fausto, sollecitato dalle domande del conduttore, racconta con molta ironia che cosa si nascondeva nella bottiglietta magica che ogni corridore nascondeva nel tascone posteriore: acqua, zucchero, simpamina e soprattutto la fiducia che la bomba funzioni.
Certamente queste dichiarazioni non possono legittimarci a condannare il ciclismo dell’età dell’oro come corrotto e dopato. I medici, gli allenatori e gli atleti all’epoca di Coppi e Bartali furono i primi a studiare l’influenza dell’alimentazione e della chimica sulla prestazione sportiva, dando di fatto inizio alla moderna medicina sportiva, nel senso più nobile.
Dunque Coppi non può definirsi un ciclista dopato?
Certamente no. Al di là dei miti e delle verita sulle cossidette bombe, Fausto e i ciclisti del suo tempo erano testimoni di un’etica sportiva fondata sulla fatica, sul sacrificio e sull’impegno, consci del valore sociale che il ciclismo rappresentava per l’Italia uscita dalla Guerra e alla ricerca di un riscatto. Il doping come scorciatoia facile per il successo era del tutto estraneo a quei campioni e a quel mondo.
Umberto Cabella
13 settembre 2013